Educare ad amare i poveri. Questa la missione della Caritas, ma oggi c’è bisogno di strutturare percorsi di impegno sociale. Ne è convinto don Nino Pangallo, direttore della Caritas reggina e coordinatore di quelle calabresi. Lo abbiamo intervistato.
Politiche sociali, sembra di essere al gioco dell’oca. A che punto siamo?
Restando in tema di metafore possiamo vedere sia il bicchiere mezzo pieno che quello mezzo vuoto. Nel “mezzo pieno” ci mettiamo la volontà di dialogare che è costante al pari di un certo pragmatismo - che in verità è un elemento di novità da parte del neo-assessore. D’altra parte c’è il “mezzo vuoto”: sono 10 anni che ci sentiamo ripetere gli stessi obiettivi...
Vale sempre, però, il problema delle risorse umane?
Certamente. Anzitutto vorrei ricordare che la diocesi di Reggio Calabria-Bova si confronta con 25 comuni e le criticità sono diffuse. Eppure la situazione del capoluogo è paradossale: va fatto un plauso a chi è in servizio perché sopperisce ad assenze ingombranti. Ma se parliamo di risorse umane, anche all’interno dell’ambiente ecclesiale dobbiamo iniziare a riflettere...
In che senso?
La riflessione va posta seguendo due linee d’orizzonte. La prima riguarda la Caritasdiocesana dove la direzione è composta quasi esclusivamente da volontari. Servirebbero professionalità nuove: pensiamo alla progettazione sociale, ma anche all’advocacy. La situazione, però, si fa ancor più critica osservando le Caritas parrocchiali: i volontari sono avanti con l’età e, spesso, questo servizio è sbilanciato totalmente sul “fare”. Mentre ci sarebbe bisogno di una lettura dei territori piùapprofondita.
Eppure il “cuore di Reggio” è sempre stato estremamente valorizzato?
Non voglio essere frainteso: in questi anni abbiamo supplito alle assenze delle Istituzioni attraverso un’operosità evangelica che va sempre evidenziata e, per cui, i “grazie” non sarebbero mai abbastanza. Dico soltanto che bisognerebbe provare a replicare alcune belle intuizioni, nate specialmente in periferia, dove accanto alla parrocchia sono sorte realtà sociali con competenze di primo livello.
Non si corre il rischio di trasformare le Caritas in enti solidali?
Il mio ragionamento va proprio in questa direzione. Il dovere della Caritas è quello di essere una guida pastorale, di educare la comunità al servizio verso gli emarginati. Ma da questo spunto devono sorgere delle organizzazioni che se ne sappiano prendere carico. Siamo chiamati alle Opere-segno: adesso, come Chiesa diocesana, stiamo vivendo una fase di transizione. Occorrerà farsi trovare pronti alla sfide che emergeranno dal post coronavirus.