Avvenire di Calabria

Lacrime e domande, perché è morto Alfie Evans?

Francesco Ognibene

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E’ l’ora delle lacrime e delle domande. Alle prime lasciamo che scorrano insieme a quelle di papà Tom e mamma Kate nell’ora in cui pensavamo invece di sostenerli con la discrezione che avevano chiesto per portare a casa il loro piccolo guerriero. Alle seconde non ci si può sottrarre, tanto sono lancinanti, aggiungendosi al dolore per una morte che ogni coscienza che sappia ancora custodire un barlume di senso umano percepisce come ingiustizia, un nuovo, lacerante grido della vita innocente che si aggiunge a quello che risuona oltre i confini della geografia, della storia, del tempo.

Alfie poteva vivere se lunedì 23 aprile alla 22.17 non gli avessero spento la ventilazione assistita e sospeso la nutrizione? La medicina non può darci una risposta, anche perché neppure alla malattia del piccolo era riuscita a dare un nome, e al capezzale di Alfie si muoveva come a tentoni, pur dichiarando in comunicati ufficiali e deposizioni in tribunale le sue certezze di carta. Quel che la nostra coscienza sa, anche senza lauree mediche o giuridiche, è che se si ostacola il respiro e si levano acqua e cibo qualunque essere umano, qualsiasi forma di vita si spegne, poco o tanto tempo occorra a ottenerne la morte.

Alfie ha resistito poco più di quattro giorni, con un andirivieni di ossigeno ridato e poi ritolto, nutrizione prima negata e poi riammessa come una concessione e non un diritto umano elementare che spetta a tutti, anche al paziente nelle condizioni più disperate, finché assolve la sua funzione, e con il piccolo malato di Liverpool è fuor di dubbio che lo facesse. Era la morte, allora, che si voleva? La risposta in questo caso è certamente affermativa: sta scritto in tutte le sentenze dei tribunali di Sua Maestà britannica e, implicitamente, nel diniego opposto dalla Corte europea dei diritti umani (diritti umani!) a riaprire il caso, a riconsiderare se su quel lettino ci fosse una vita “inutile”, com’era stata definita, dunque un costo, un fastidio, uno scarto da smaltire, oppure una persona umana per sua dignità innata meritevole di avere ciò che spetta a tutti: cure, ossigeno, nutrimento.

Che tutto questo sia stato negato a un bambino offende l’umanità, umilia il diritto, calpesta l’etica medica, invoca a gran voce quella giustizia che i tribunali umani hanno pervicacemente negato, e che ora gli è donata con sovrabbondanza nell’abbraccio del Padre ricco di misericordia e di amore per ogni suo figlio, e in particolare per i bambini che soffrono e muoiono per mano, ignavia o ipocrisia altrui. A lui la pace che chiedeva da noi e che gli è stata negata, a Tom e Kate la gratitudine per la testimonianza di una genitorialità trasparente e integra fino all’assoluta negazione di sé, a noi le lacrime e le domande. Non lasciamo asciugare le prime senza aver risposto alle altre.



Articolo apparso su Avvenire il 28 aprile 2018

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