Avvenire di Calabria

L’Europa è “rivoluzione tradita”, ora l’Unione diventi politica

Il commento di Ernesto Preziosi: "Occorre partire dal riconoscimento delle cose sbagliate, affrontandole"

Ernesto Preziosi *

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È sempre più evidente come la costruzione della casa comune europea, alimentata da ideali comuni a più generazioni, sia oggi in crisi. L’idealità che aveva caratterizzato l’impegno di grandi uomini politici come De Gasperi, Schumann, Adenauer e che era stata capace di unire nazioni che si erano combattute fino a poco tempo prima, oggi attraversa una difficoltà, aggravata dalla crisi economica, che si presenta di non facile soluzione.

Perché non si torni indietro, in un contesto pericoloso in cui risorgono i nazionalismi e le convinzioni xenofobe, si deve puntare ad un’Europa che fa un passo avanti, che non si accontenta delle sue attuali istituzioni, ma diventa un’Europa più politica. Potrà sembrare un’utopia, ma è l’unica strada che si può percorrere. Occorre però partire dal riconoscimento delle cose che non vanno, e ce ne sono, affrontandole. Occorre una consapevolezza della attuale situazione: l’Europa è una “rivoluzione tradita”. Oggi l’Unione è più distante dall’unità, dal punto di vista politico, di quanto lo fosse la Cee, la Comunità economica europea.
Richiamo alcune criticità nella convinzione che queste non vadano negate e ignorate, bensì messe in primo piano proprio da chi è convinto della necessità di una ripresa del progetto europeo. Non è sufficiente nella situazione presente un generico atteggiamento di contrasto allo scetticismo europeo dei vari populismi.

Dobbiamo dire con chiarezza che l’Europa è necessaria, utile, ma che anche per questo, occorre intervenire sulle criticità. Vediamole:
1. L’aspetto intergovernativo prevale su quello comunitario. C’è un federalismo degli esecutivi, non degli stati o dei popoli. Il Parlamento deve avere un ruolo maggiore.
2. Gli Stati hanno un peso predominante nel Consiglio e nella Commissione e possono bloccare le scelte con il loro veto.
3. La crisi monetaria ha inciso sui paesi “cicale” che pretendono maggiore flessibilità, ma è necessario ribadire che gli accordi vanno rispettati.
4. Le difficoltà di gestione del fenomeno migratorio e la conseguente crisi umanitaria sono in buona parte dovuti alle politiche di chiusura e di paura instaurate dai governi.
5. Il sovranismo dei paesi di Visingrad, è dovuto anche a motivazione storiche con cui si è realizzata la formazione del loro stato–nazione.
6. Infine tra i fattori di criticità su cui è necessario intervenire va messa anche l’eccessiva burocrazia nell’apparato delle istituzioni europee e la necessità di una nuova architettura istituzionale.

Prima che le fobie nazionalistiche riemergenti diventino pericolose, dobbiamo mettere mano con proposte concrete e realizzabili per ovviare a queste e ad altre criticità in modo da offrire agli europei una Europa possibile, per dare più Europa agli europei. La situazione attuale mette radicalmente in discussione il progetto stesso della UE e si traduce nell’alternativa netta, formulata dal presidente della Commissione Juncker, tra «stringerci intorno a un programma positivo per l’Europa o ritirarci ognuno nel proprio angolo».

Nelle elezioni del prossimo maggio si confronteranno, quindi, non solo differenti programmi politici che riguardano il “come” attuare le competenze europee e con quali priorità, ma vere e proprie differenti idee di Ue, proposte da soggetti e coalizioni inedite. Siamo ad un bivio: o facciamo un passo avanti, correggiamo le cose che non vanno e scommettiamo su un futuro insieme, oppure si tornerà inevitabilmente indietro.

È il momento di riprendere i grandi ideali, una visione politica dell’Europa possibile, e rimboccaci le maniche in una nuova stagione che veda i cattolici protagonisti.

Non è in crisi appena l’Europa economica ma l’idea stessa d’Europa. È dai referendum che hanno bocciato nel 2005 la nuova Costituzione europea, che nascono le pulsioni che alimentano il filone populista, euroscettico. A monte c’è un problema culturale, l’incapacità di coltivare un’idea di Europa, di cogliere gli effetti benefici che sono in primo luogo ascrivibili alla pace e alla convivenza pacifica di questi decenni. La crisi è valoriale: non si sa che cosa sia l’Europa perché negli ultimi anni si sono dimenticati solidarietà, prosperità e sovranazionalità.

Chi deve svolgere questo ruolo? A chi compete un’azione culturale vasta, capace di divenire popolare? Certo un compito lo hanno la scuola e la cultura, le religioni (quanto sarebbe importante il dialogo interreligioso e quanto sono contrastanti gli atteggiamenti posti in essere da tanti che, pur appartenendo alle religioni non sono portati al dialogo, alla conoscenza, al confronto, ma diventano prede delle fobie sulla minaccia islamica, ecc.). Ma come non ricordare che tra coloro che dovrebbero svolgere un ruolo ci sono la politica e i partiti, non a caso in crisi nel vecchio continente. Così come è in crisi la classe dirigente, la capacità di leadership, capace di ridare visione, ben oltre i confini nazionali, ai popoli europei.

La strada per rimanere protagonisti passa attraverso la crescita del se nso di appartenenza, la pratica attiva della democrazia e della cittadinanza europea, la cooperazione internazionale, la vigilanza esigente. Ma la strada non sarà né breve né facile.

* già vicepresidente nazionale di Ac per il Settore adulti e direttore dell’Istituto Paolo VI

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