Avvenire di Calabria

Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria spiega come sia fondamentale superare la logica dei favoritismi

Mafia e corruzione, il pm Dominijanni: «Istituzioni fragili»

Un esempio rispetto all'infiltrazione sistemica della 'ndrangheta è data, a suo modo di vedere, dalle numerose «varianti in corso d’opera»

Federico Minniti

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Gerardo Dominijanni è Procuratore aggiunto di Reggio Calabria dal luglio 2015. Un magistrato che conosce bene la Calabria e il ginepraio di illegalità che si annidano soprattutto nella Pubblica Amministrazione come spesso sottolinea un altro magistrato, Nicola Gratteri, nativo della Locride, proprio come lo stesso Dominijanni. Se l’obiettivo privilegiato, quindi, rimane la lotta alla criminalità organizzata, non di meno importanza è il contrasto alla corruzione che spesso veste i panni della “normalità” nella regione più a sud dello Stivale.

’Ndrangheta e Pubblica Amministrazione. Un rapporto consolidato?

La ‘ndrangheta è un potere all’interno dello Stato e, spesse volte, ne supplisce delle deficienze. Quindi, quanto più lo Stato è inefficiente, quanto più la ‘ndrangheta cresce di consenso sociale.

Una forza esercitata nel contro asfittico degli appalti.

I clan riescono ad inserirsi tra le pieghe del potere economico reale, condizionando gli appalti e le forniture pubbliche, ma non solo: vi è un’infiltrazione sistemica della Pubblica Amministrazione proprio in virtù della necessità di inserirsi nella gestione dei problemi di ordine pratico e di porsi come soggetto risolutore dei contenziosi, anche i più spiccioli.

Colpa di una politica troppo «debole»?

C’è una doppia tendenza in atto: da un lato ci sono soggetti che scelgono di essere votati dalla ‘ndrangheta e sottoscrivono una cambiale, dall’altro sono i clan stessi che si offrono al politico. C’è quindi questa probabile sudditanza che può essere disinnescata soltanto alzando il livello di trasparenza. Questo attualmente purtroppo non avviene.

Trasparenza e semplificazione sono le parole–chiave del suo ragionamento. Non sarebbe il caso di monitorare più da vicino la burocrazia?

Esattamente; basti pensare alla grandissima influenza che hanno i funzionari pubblici rispetto ai politici. È il cane che si morde la coda: c’è un fenomeno di autoconservazione dello status quo che crea, inevitabilmente, delle vere e proprie sacche di potere. Proprio nello scontro tra le diverse sacche, nei dissidi, è lì che la ‘ndrangheta trova lo spazio ideale per la sua infiltrazione.

Ci sta dicendo che l’elefantiaco apparato pubblico favorisce le cosche?

Recentemente la tecnica legislativa, invece di semplificare le norme, le sta complicando. Se una procedura è complessa, se porta a contenziosi e interpretazioni, allora è quasi fisiologico che per “sbloccarla” si debba ricorrere alla «banca del favore» e alla corruzione.

Occorre, a questo punto, fare un passo indietro. Se la “Legge Bassanini” determina chiaramente la divisioni di responsabilità all’interno di un Ente, allora perché in occasione degli scioglimenti per mafia dei comuni a pagare le conseguenze è solo la politica?

La realtà è completamente diversa: spesso è il politico a “costringere” il burocrate a redigere gli atti secondo i propri desiderata. D’altro canto l’amministratore naviga a vista rispetto alle simpatie della politica nel novero dei premi di produzione, nonché della conservazione della propria posizione di controllo di un dato settore.

Eppure non mancano le norme anticorruzione.

È vero, ma – ad esempio – in quante amministrazioni si fa una reale rotazione dei dirigenti rispetto agli incarichi? La risposta è semplice: quasi mai. Così si solidificano le condotte dei “gruppi di potere”.

Il vero problema è che nessuno applica una sanzione qualora leggi come questa vengano disattese, per cui questa condizione si normalizza.

Insomma, la corruzione diventa la prassi?

Ci vuole una mentalità diversa. Da cittadino le dico: qualcosa sta cambiando. Da magistrato aggiungo: non è ancora abbastanza. Va rivista la tempistica; per far comprendere al meglio questo mio punto di vista occorre fornire un esempio concreto.

Lo faccia.

La maggior parte dei reati contro la Pubblica Amministrazione si prescrivono in sette anni e mezzo; in virtù di questo aspetto, è quasi impossibile arrivare alla condanna definitiva dell’imputato.

Ovviamente questo meccanismo tutto fa tranne che disincentivare le condotte delinquenziali. Se noi riuscissimo, quantomeno, ad arrivare al sequestro delle somme illecitamente percepite, potremmo ottenere la confisca anche in caso di prescrizione del reato. Lanceremmo un grande segnale: delinquere, non conviene in quanto nessuno resta impunito.

Ma come si può prevenire tutto questo? È solo un problema legislativo?

Le norme sulla carta ci sono: pensiamo ai subappalti che sono vietati dalla Legge. Ma se una ditta – a livello documentale – rispetta il dettato normativo, mentre in pratica lo viola è chiaro che manca un tassello che è quello del controllo.

Chi dovrebbe farla?

È inimmaginabile che la Procura intervenga in modo preventivo “a campione”. I controlli andrebbero fatti da autorità indipendenti. Ad oggi, l’Anac ha poche risorse in tal senso. Eppure questo tipo di attività è essenziale per debellare davvero lo strapotere economico della ‘ndrangheta in questi territori.

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