Avvenire di Calabria

Prima parte del vivo ricordo di monsignor Salvatore Nunnari sull’arcivescovo somasco che cambiò la città

Monsignor Ferro. Mani verso il cielo, cuore aperto a tutti

Salvatore Nunnari *

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«Ci sazieremo, Signore, contemplando il tuo volto». La preghiera che la Chiesa pone sulle nostre labbra fu la costante del Servo di Dio Giovanni Ferro. Egli fu soprattutto un permanente in preghiera. Ricordo che, accompagnando monsignor Sorrentino per la prima visita di cortesia in Prefettura, mi impressionò la richiesta del prefetto del tempo, dottor Ciompi, al novello Arcivescovo: «Continui anche lei a farci rivolgere lo sguardo verso l’Alto così come faceva il suo predecessore. Dopo aver dato la soluzione con le sue sagge risposte alle delicate questioni che gli sottoponevo, concludeva il colloquio alzandosi in piedi e, sfregandosi le mani, fissava il cielo con i suoi occhi sorridenti e penetranti. Un invito a invocare l’altissimo e farsi da lui illuminare». Un gesto che molti di noi ci portiamo ancora dentro. Non sempre lo comprendevamo quando portando a lui i nostri problemi ci poneva la domanda: «Hai pregato abbastanza?». Poi lo ritrovavi nella sua cappella per lunghe ore dinanzi al Santissimo sacramento e capivi che la domanda, che ti metteva in crisi, aveva una risposta in quell’icona del contemplativo che si saziava di Dio contemplando il suo volto e incontrando in lui i volti e la storia dei suoi figli. Raramente lasciava scoprire le afflizioni del suo animo, riservando alla preghiera, spesso sofferta e solitaria, il gemito e l’effusione del cuore. Una domenica di agosto del 1977 dovevo accompagnarlo a Santa Venere di Trunca per il saluto di commiato alla gente semplice dei campi. Nelle prime ore dell’alba fu raggiunto dalla notizia che nella notte era morto l’ultimo dei suoi fratelli. Lo trovai in preghiera nella sua cappella. Mi permisi appena di dissuaderlo a fare quella visita e di rinviarla. Mi fissò negli occhi e quasi sussurrando all’orecchio mi disse: «La nostra tribolazione è per la loro consolazione, loro non devono sapere nulla del mio lutto»; e allora partimmo. Nei tornanti di quei monti ha voluto che ci fermassimo per contemplare la bellezza dello Stretto.

Poi mi rivolse la domanda: «Che regalo posso fare a questo buon popolo?». «Don Lillo Spinelli assieme ai gruppi giovanili ha fatto la chiesa; ora attendono l’istituzione della parrocchia», fu la mia risposta. «Come segretario del Consiglio Presbiterale – mi disse – fai la convocazione e metti la proposta del trasferimento del beneficio della parrocchia Santa Maria delle Grazie in Perlupo alla chiesa di Santa Croce in Santa Venere di Trunca». Lo annunciò al popolo come ultimo suo dono.

Quante volte nella tarda vecchiaia, chi gli stava vicino, ha potuto sorprenderlo, di notte e di giorno a colloquio col Suo Signore e ne ha percepite le parole cariche di sofferenza, di affetto, di abbandono. Don Curatola, allora rettore, che lo amò e lo servì con cuore di figlio, è buon testimone.

Non fa meraviglia perciò di poter leggere e interpretare i tratti della sua personalità.

Nato a Costigliole d’Asti il 13 novembre 1901, nel cuore del Piemonte, da gente umile, povera ma ricca di ingegno e di fede, monsignor Ferro portò ovunque con sé, per farne dono agli altri, la dolcezza di una formazione umana e cristiana tipica di altre generazioni. La formazione nella Congregazione Somasca, il carisma del Santo fondatore, Girolamo Emiliani, ne plasmarono profondamente l’animo facendolo attento alle necessità degli orfani e dei diseredati come dimostrerà nelle tante opere di assistenza e di carità da lui promosse e fatte crescere.

Animo sensibilissimo, non aveva cedimenti né sentimentalismi; conscio della sua autorità e della sua dignità, trattava tutti con rispettoso riserbo, con misurato equilibrio, con paterna bontà. Austero con sé stesso, era però attento alle necessità degli altri, povero senza ostentazione di povertà, era tuttavia sempre dignitoso e quasi solenne, preoccupato soltanto di non essere di peso a qualcuno.

Con un senso vivissimo dell’onestà, dell’equità, della giustizia fino allo scrupolo nel rendere conto di ogni minima spesa, di assegnare a ciascuno ciò che reputava dovuto. Solo dei suoi personali risparmi non ha dato conto a nessuno. Tutto era per i poveri. Tutto, dico tutto.

Bella la testimonianza di monsignor Agostino nel suo libro Nessuno così padre: «Monsignor Ferro, sempre presente a se stesso, sempre sorridente, era particolarmente riservato. In tanti anni di comunicazione di vita, io pur suo vicario generale, non l’ho mai sentito parlare di sé, delle sue cose, della sua vita. Anche negli spazi di accesso confidenziale, non conoscevo alcuni angoli dell’episcopio. Una volta sola ho avuto la possibilità, per ragioni di ufficio, di entrare nella sua camera da letto, dove era trattenuto da una forte affezione alla gola. Sono rimasto sorpreso di quanto ho visto. Erano passati quasi vent’anni dalla sua venuta a Reggio. Lui aveva un pigiama con su scritto, come si suole fare in alcune comunità religiose: “Padre Ferro”. L’indumento era pulitissimo ma, in qualche punto, consumato, liso e rattoppato. Allora ho scoperto che il vescovo così dignitoso, solenne, era in fondo tale perché “rivestito di Cristo”. Me l’ha mostrato espressivamente in quella “veste”, in quel pigiama con la scritta “Padre Ferro” che, in un certo senso, continuava a rivestirlo da religioso. Questa dimensione inquadra monsignor Ferro. L’animo “religioso” lo custodiva. Si mantenne sempre “povero”, “docile”, “donato”. Non conosceva la ricerca di sé, della comodità, del superfluo. La statura di religioso era sostanziale. Andava sempre all’essenza. Donava sempre tutto ma sapeva, anche con spirito povero e libero, accogliere quanto gli si donava».

(segue)

* Vescovo emerito della diocesi di Cosenza-Bisignano

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