Avvenire di Calabria

Intervista esclusiva a Paola Bignardi: «Famiglia e parrocchia alleate per educare offrendo testimonianze che siano credibili»

Recuperare la gioia dell’annuncio

Davide Imeneo

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Il ministero dei laici è cambiato tantissimo durante il corso della storia della Chiesa. Abbiamo chiesto a Paola Bignardi, che relazionerà martedì a Reggio Calabria in occasione del Convegno Pastorale Diocesano, quali sono, secondo lei, le urgenze che devono stare a cuore ad ogni battezzato.

«Penso che ogni battezzato – risponde la dottoressa Bignardi – non astrattamente consapevole di avere delle responsabilità da cristiano, ma cosciente della situazione in cui vivono gli uomini e le donne di oggi, deve avvertire come primaria la questione della fede. Oggi per tutti i battezzati è difficile comprendere come essere cristiani in un contesto che si è profondamente modificato e che rende difficile interpretare la fede in rapporto alla vita. Il segnale di questa profonda difficoltà è la fatica di trasmettere la fede cristiana alle nuove generazioni, che si stanno sempre più allontanando dalla chiesa e dal suo messaggio, ma che non sono senza attese e senza domande profonde di senso e di Dio».

L’efficacia della testimonianza è determinante per contribuire alla missione della Chiesa. Il primo luogo in cui si impara ad essere testimoni credibili è la parrocchia o la famiglia?

Famiglia e parrocchia non possono essere messe in alternativa. Esse possono educare solo se alleate e impegnate a vivere ciascuna secondo le proprie specifiche caratteristiche. In famiglia si imparano alcune cose, soprattutto quelle legate ad una trasmissione informale di una fede che è luce e forza per la vita di ogni giorno, intrecciata ad essa. In parrocchia si impara che non si può credere da soli, e si acquisiscono gli atteggiamenti di una vita cristiana condivisa, corresponsabile, fraterna. Nell’uno e nell’altro ambiente occorre incontrare persone che fanno sul serio e che fanno vedere la bellezza e la forza di una vita vissuta da cristiani.

La corresponsabilità è anche educativa?

La corresponsabilità educa in quanto e nella misura in cui genera coinvolgimento, avvicina le persone ad una causa comune, le fa sentire protagoniste, le accosta ad un mondo di valori di cui sa far intravedere l’importanza e la bellezza. Questo fa sì che ci si confronti con essi in maniera positiva, interessante, e libera.

Perché l’educazione deve educare le persone alla libertà delle proprie scelte.

Non sempre il Bene Comune è un obiettivo comune. Ha senso che la Chiesa investa nella formazione politica?

Oggi si vive una crisi della politica che non nasce solo dalla politica, ma da un clima culturale in cui l’individualismo esasperato rende difficile cogliere il valore di ciò che è comune. Anche per questo è necessario che la chiesa si senta impegnata ad una formazione della coscienza in maniera integrale, includendo in questa formazione dunque anche la dimensione politica. Il compito della chiesa non credo che stia nel formare i politici né di domani né di oggi, ma di formare coscienze rette, in grado di avvertire e di assumere le proprie responsabilità di cittadini. Dal Concilio abbiamo imparato che la politica è la più alta forma di carità, dunque non può essere esclusa dall’attenzione formativa della chiesa. I valori cui si ispira non potranno che essere espressioni della carità: solidarietà, servizio, attenzione ai più fragili, perseguiti in uno stile di lealtà, di correttezza, di disinteresse. A questi valori non si educa senza una relazione forte con il Signore e un riferimento radicale al Vangelo.

La missione della Chiesa non può prescindere dal ministero dei laici.

Eppure i rapporti con la gerarchia non sono sempre idilliaci. Come favorire il dialogo?

La relazione è sempre reciproca: i rapporti dei laici con la Gerarchia non sono idilliaci da parte dei laici e viceversa. I laici vengono da una secolare storia ecclesiale di marginalità: questo rende difficile un recupero di atteggiamenti corretti, che sono quelli indicati dal numero 37 della Lumen Gentium: rispetto della dignità personale e vocazionale di ciascuno, valorizzazione e rispetto reciproci, capacità di vedere da parte di ciascuno la risorsa che l’altro rappresenta, non immaginarcelo mai come una persona perfetta, perché questo modello non esiste.

Accettandoci con le nostre risorse e i nostri limiti possiamo mostrare la forza originale di una vita secondo il Vangelo.

L’associazionismo gioca un ruolo determinante nella formazione umana, affettiva, ecclesiale e spirituale dei laici. Secondo lei cosa andrebbe curato meglio?

Andrebbe curato meglio proprio l’associazionismo, non considerandolo come un elemento strumentale nella pastorale, ma come espressione di formazione alla socialità e di corresponsabilità, elementi essenziali in una cultura individualista come l’attuale. Per questo occorre convincersi che l’efficacia della pastorale non sta nella forza con cui riconduce a uniformità le diverse espressioni della vita della comunità, ma nelle energie che sa suscitare e orientare ad un obiettivo comune, nel dialogo, nel confronto, nella corresponsabilità. Ciascuna associazione, che ha un proprio carisma, un proprio metodo, un proprio progetto dovrà perseguire questo obiettivo secondo le proprie modalità specifiche.

Giovani e fede. Pensiamo ad una missione diocesana rivolta ai giovani.

I criteri principali che assumerei: ascolto dei giovani e della loro domanda di vita e coinvolgimento di tutta la comunità. La missione dei giovani non può essere un’iniziativa fatta per loro, ma deve essere un cammino di conversione di tutta una comunità. Solo a queste condizioni credo che ne valga la pena.

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