Scrivere di «periferie» può risultare un fatto banale. La vita dei quartieri, infatti, è intrisa di praticità che spesso riusciamo a raccontare attraverso il dinamismo scalpitante delle parrocchie e delle tante realtà associative che orbitano attorno a esse. Purtroppo, a questa brillante pagina di servizio, spesso si contrappone uno stato di oblìo dei servizi.
Sarebbe ingeneroso, quindi, porsi con l’indice puntato verso chi è deputato a rispondere a tali bisogni, per quanto denunciare le assenze sia un esercizio di cittadinanza attiva. Ma non può e non deve bastare. Le periferie reggine, molte delle quali rappresentano demograficamente il vero cuore del capitale umano cittadino, vivono una fase di stasi che raramente le aveva investite con questi effetti: l’iniziativa ad Arghillà Nord, rilanciata in prima pagina nello scorso numero del nostro settimanale (in uscita lo scorso 27 maggio), ha rappresentato un segno di rottura rispetto al recente passato. Il territorio ha voluto alzare la testa da sotto la sabbia, seppur mostrandosi nelle proprie fragilità (molte delle quali restano come l’assenza cronica di acqua nelle abitazioni), con una collegiale discesa in campo.
In questo la politica deve imparare la lezione evangelica: «Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati», come scrive Matteo all’inizio del sesto capitolo. Anche perché quanto fatto nelle periferie non è una vittoria, ma – semmai – un pareggio con la propria coscienza. Ma è giusto proporre un dialogo tra coscienza e politica? Tra morale e programmazione? Probabilmente sì. Questa prospettiva è quella, tra l’altro, tratteggiata da Gualtiero Bassetti, presidente dalla Conferenza episcopale italiana, durante l’attuale crisi (valoriale) della politica nazionale: «Serve una visione integrale per una politica saggia, incisiva e giusta». Rilanciare un nuovo umanesimo nella Pubblica Amministrazione vuol dire certamente ripartire – senza sé e senza ma – dalla politica dei quartieri.
Tornare al confronto – uno a uno – coi cittadini e coi corpi intermedi svuotati di senso nel nome di una partecipazione virtuale o mediatica. Avviare questa fase di doppia dialettica, con le persone e con la coscienza civica, vuol dire riconoscere nelle denunce pubbliche dei fatti costruttivi e non degli atti d’accusa. Uscire dal Palazzo è, oggi, un dovere irrinunciabile. E, secondo onestà intellettuale, è corretto sottolineare quanto di buono fatto in questi mesi: aver «distrutto» l’idea che in Città potessero esistere delle «zone franche» come l’ex Polveriera o l’ex Caserma “Duca d’Aosta” rappresenta una grande azione di pulizia etica accanto alla quale deve necessariamente imbastirsi una serie di attività di pura giustizia sociale affinché anche quei cittadini, finora autodelimitati in un ghetto urbano in quanto «figli di un Dio minore», in realtà si sentano pienamente inclusi nel contesto cittadino. Quando un anno fa visitammo la Caserma “Duca d’Aosta” percepimmo, sulla nostra pelle, il significato della parola “emarginazione”. Rimangono, comunque ferite aperte, nei territori seppur meno evidenti.
Il rione Marconi ne è una testimonianza a un tiro di schioppo dai palazzi istituzionali, ma non è il solo. Vanno rivalutate le condizioni di tutte quelle aree decentrate, come tutto l’arco pre–aspromontano, che vivono un graduale isolamento, in termini di infrastrutture e servizi, che spesso coincide con un vorticoso impoverimento economico e sociale. Esistono diverse sacche di disagio (più o meno latenti) che certamente non possono essere affrontate con un bilancio totalmente bloccato dal piano di rientro necessario per evitare il default finanziario. Ciò che occorre è una visione che anteponga le persone alla finanza contabile. L’abolizione delle circoscrizioni, avvenuta nel 2010, rappresenta un disastro amministrativo ancor più nell’ottica della Città metropolitana. L’accentramento, quello che ormai è definito Reggiocentrismo, ha portato a rendere ancora più dilaniato il territorio: ripartire dall’attivazione degli istituti di partecipazione suddivisi per aree geografiche potrebbe rappresentare un primo segnale di apertura verso il territorio. Occorre istituzionalizzare questi processi, ma al contempo non ingessarli nei rituali di una burocrazia che – è innegabile – oggi è fattore di assoluta lontananza tra cittadini e Pubblica Amministrazione.
Qualche passo in avanti è stato fatto, ma il cammino è ancora lungo e tortuoso. Solo attraverso il coinvolgimento delle forze sane della città si potrà ristabilire un clima di concordia sociale che è il primo (concreto) avamposto di resistenza alle nuove povertà e alla pervasività costante della mentalità malavitosa.