Avvenire di Calabria

Valentina e Gaetano, due giovani genitori reggini, raccontano l’esperienza della nascita di Matteo loro primogenito in cielo

Scegliere la vita: un amore possibile oltre le fragilità

Federico Minniti

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«Siamo sposati da sei anni e abbiamo tre figli, di cui uno in cielo». Gaetano e Valentina, 36 e 32 anni, siedono al tavolo della nostra redazione. Li abbiamo invitati per farci raccontare le loro vicissitudini, iniziate proprio all’indomani del loro matrimonio.

Come inizia la vostra storia?

Dopo tre mesi dal matrimonio ho scoperto di essere incinta. Eravamo molto felici e già, al terzo mese di gravidanza, abbiamo appurato che c’era qualcosa che non andava. La prima cosa che fu prospettata fu quella dell’aborto terapeutico comunicato probabilmente con fin troppa “leggerezza” dal ginecologo.

Vi fu consigliato l’aborto, insomma.

Di fronte a un caso così “spacciato” di terminalità, quel medico – che comunque continuò a seguirci – non aveva mai visto nessuno, in tanti anni di carriera, che aveva deciso di andare avanti. A mesi di distanza ci chiamò per confermarci che attraverso la nostra storia aveva percepito come si poteva vivere una situazione come la nostra con grande dignità alla luce della fede.

Quale fu la vostra prima reazione?

Logicamente, nonostante la nostra scelta di fede, non nascondo che in un primo momento non fossimo «nel pallone». In quella occasione, tornando a casa, decidemmo di pregare insieme aprendo la Bibbia in una pagina “a caso”. «Non temere, nulla è impossibile a Dio»: questo fu il versetto che “capitò” alla nostra lettura. Abbiamo capito, allora, che non dipendeva tutto dalle nostre forze: se nessuno voleva quel bambino in quanto «scartato», solo noi potevamo amarlo profondamente.

Da quella Parola, quali azioni scaturirono?

Abbiamo vissuto questo in perfetta comunione coniugale vivendo ogni ecografia sapendo che ciò che custodivamo non era una “morte”, ma una vita piena. Maturata la nostra scelta, supportati dal nostro sacerdote e dai fratelli di comunità del Cammino neocatecumenale, decidiamo di avere un nuovo consulto all’ospedale universitario “Agostino Gemelli” di Roma. A rispondere alla nostra telefonata fu il professor Giuseppe Noia che ci disse, senza neanche conoscerci: «Non fatevi rubare l’idea che questo è vostro figlio». Per qualcuno, oltre noi, nostro figlio valeva.

E chi vi stava accanto cosa pensava della vostra scelta?

Anche tra gli amici e con i parenti dovevamo stare attenti a quello che ci dicevano, perché in tanti non condividevano quello che stavamo facendo. «Perché devi soffrire?» era una domanda che spesso ci sentivamo dire. Tutti siamo scandalizzati dalla sofferenza: il Signore, in questo senso, mi ha messo alla prova. Col tempo ho giustificato quanti si sono allontanati in quel tempo da noi.

Cosa accadde al Gemelli?

Durante il primo controllo col professor Noia, inoltre, ci chiese subito se sapevamo il sesso e il nome del bambino. Questi aspetti ci hanno restituito molta dignità: abbiamo scelto di chiamarlo Matteo che significa «dono di Dio». Attraverso lui, Dio ci ha interrogato: «Che cosa vuoi fare della tua vita? Con chi ti vuoi alleare?». Non c’erano mezzi termini, bisognava fare una scelta di essere saldamente «parte con Lui».

Non mancarono, quindi, i sacrifici tra Reggio e Roma.

Dobbiamo testimoniare una grande Provvidenza: non c’è mancato mai niente per fare i controlli a Roma, abbiamo incontrato fratelli che ci hanno aperto le porte della loro casa con grande rispetto per la nostra vicenda.

Poi nacque Matteo.

L’anencefalia comporta, spesso, la nascita con parto cesareo. Pertanto abbiamo programmato la nascita a inizio maggio. Dentro la sala operatoria siamo stati insieme e questo è stato un dono poiché non sapevamo quanto Matteo potesse vivere. Averlo visto, baciarlo, toccarlo ci ha aiutato tantissimo. Riconoscere le somiglianze, sentire il suo profumo sono un ricordo indelebile. Abbiamo anche deciso di battezzarlo immediatamente: tutto questo momento è stato vissuto all’insegna della sacralità di questa vita; prima dell’operazione abbiamo recitato un Padre Nostro col dottore e con i volontari della fondazione «Il cuore in una goccia» che ci hanno fatto da “tutori” in questa circostanza.

Come si affronta quel momento?

Nella Parola di Dio, l’embrione viene difeso: basta leggere Isaia, «prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato», per vedere il sigillo tra noi e nostro figlio Matteo nonostante lui sia vissuto soltanto per poche ore. Abbiamo visto tutto l’amore possibile nonostante tutte le fragilità.

La fede ha continuato a sostenervi.

Dopo la morte di Matteo abbiamo aperto un’altra volta un Vangelo: «Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il Regno dei Cieli». Fummo stupiti da queste parole, Gesù diede dignità a nostro figlio: agli occhi di Dio ogni vita è preziosa.

Dopo un’esperienza così, come è stato affrontare le nuove gravidanze?

Certo che c’è la paura, ma l’abbiamo affrontata restando legati a Dio. Però aggiungo: se avessimo interrotto la gravidanza di Matteo, non avremmo avuto un ulteriore rimorso di coscienza? Adesso abbiamo altri due bimbi, di tre anni e mezzo e di cinque mesi, perché ci siamo affidati esclusivamente alla volontà di Dio.

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