Avvenire di Calabria

La vita di un uomo ingiustamente internato in quel manicomio che divenne la vergogna del sistema sanitario

Un uomo vestito soltanto dei suoi ricordi

L'esperienza di Casa Emmaus a Palizzi raccontata ai ragazzi della scuole

Mimmo Nasone

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L’anno scolastico appena concluso mi ha consentito di vivere un’esperienza educativa certamente positiva. Durante la mia ora di Religione di mercoledì ho incontrato gli alunni di quattro classi del tecnico industriale “Panella - Vallauri”, la scuola che, nel 1970, mi ha permesso di conoscere don Italo Calabrò. Il mercoledì pomeriggio e il giovedì mi recavo nelle carceri di San Pietro e di Arghillà dove il CPIA “Stretto Ionio” è presente per garantire il diritto allo studio dei detenuti: un dialogo non facile ma sempre rispettoso e sincero. Le ore di lezione, introdotte dal messaggio antico e sempre nuovo del Vangelo, sono state occasione per riflettere sulla vita, con i doni gratuiti ricevuti in dote e le scelte che spesso hanno portato sulle vie della violenza criminale. La Parola di Dio ci interpellava e in qualche modo illuminava la vita di ciascuno di noi e di tutti seminando fiducia e speranza. Un’esperienza complessa e affascinante fondata sulla certezza che dall’errore e dall’orrore tutti possiamo liberarci. La mia settimana di docente di Religione mi ha impegnato anche nel servizio presso l’Istituto Comprensivo “Carducci – V. Da Feltre” sempre di Reggio Calabria: avevo otto classi e le mie ore le svolgevo tra lunedì e martedì. Anche con gli alunni della scuola media ho vissuto un’esperienza a dir poco affascinante. Il metodo per entrare in comunicazione con i miei alunni lo avevo appreso da don Italo Calabrò. Determinante è stata la relazione fondata sul rispetto assoluto della loro persona, che ha favorito l’incontro e la proposta dei contenuti. E così gradualmente ci siamo accostati alla Storia della Salvezza narrata nella Bibbia: con la conoscenza di Abramo, Mosè, Isacco, Davide e dei profeti ci predisponevamo a incontrare Maria, Madre di Dio, Gesù e gli apostoli, scelti per essere i primi testimoni del suo messaggio di liberazione. Un poco alla volta siamo riusciti a capire che avere fede significa anche riconoscere che la nostra vita è un dono straordinario dell’amore di Dio. Una occasione unica per continuare a testimoniare la grande misericordia di Dio che ci accoglie sempre e ci illumina con la sua grazia. E abbiamo anche capito che la nostra storia, e quella di tutti gli uomini e le donne di ogni tempo, si inserisce nella storia più grande della Rivelazione che culminerà nel Giudizio finale, quando il Signore ritornerà nella sua gloria per giudicare vivi e morti. Così l’ora di Religione era diventata un racconto di storie: anche delle storie di tanti poveri Cristi, gli esclusi, gli ultimi, gli emarginati che abbiamo conosciuto attraverso le cronache o l’incontro personale. Storie degli sconfitti, dei più poveri tra i poveri, di quelli che Gesù prediligeva. I ragazzi hanno apprezzato questo metodo. Infatti al cambio dell’ora mi aspettavano con la loro frizzante vivacità e con un sorriso che esprimeva il desiderio di un incontro che, come mi dicevano, “non era palloso” ma bello da vivere. Ricordo volentieri una ragazza di terza media che un giorno mi confidò che era dispiaciuta perché facevamo soltanto un’ora di lezione la settimana. E un altro ragazzo di prima media che soltanto dopo neppure un mese di scuola, appena entravo in classe mi veniva incontro e mi diceva: “prof., raccontaci una storia”. Ed io non potevo tirarmi indietro. Forse un giorno tutte le storie di vita vissuta che ho raccontato ai miei alunni le scriverò. Intanto narrerò la vita di una persona che ha suscitato grande interesse ed emozione fino ad essere rielaborata in forma teatrale da una intera classe. I miei alunni di quella seconda media hanno scelto anche il titolo  della rappresentazione: “Il ragioniere innamorato”. Un giorno, per descrivere il diritto alla dignità di ogni essere umano, raccontai l’esperienza del mio primo incontro con i malati mentali del manicomio di Reggio Calabria. Era il 1970 e frequentavo la terza classe del tecnico industriale “Panella”. Quell’anno ho avuto un docente straordinario di Religione: don Italo Calabrò. Fu proprio don Italo a farmi scoprire la vergogna del manicomio di Reggio, a farmi incontrare i primi matti e poi ad accompagnare le mie scelte che dal volontariato mi condussero alla scelta di diventare sacerdote. E proprio mentre ero parroco di Palizzi decidemmo con la mia comunità parrocchiale di accogliere alcuni ricoverati del manicomio per una breve vacanza. Così accompagnato da un giovane della comunità, il 23 dicembre 1983, grazie alla autorizzazione del dottor Marino, direttore del manicomio, ho potuto portare a Palizzi per tutto il periodo delle feste e precisamente fino al 7 gennaio 1984, sei ricoverati. In un primo viaggio ne portammo tre. Il secondo viaggio dovevamo prendere altri tre ammalati. Ma sorse un imprevisto. Uno di loro, il più anziano, non intendeva vestirsi: nudo era e nudo rimase. E alla mia domanda se volesse venire al suo paese mi rispondeva con determinazione e in perfetto italiano “si”. Ma appena lo invitavo a vestirsi, con altrettanta risolutezza mi diceva un secco “no”. I diversi tentativi per convincerlo a vestirsi non sortirono effetto e i medici di turno mi dissero che se l’ammalato non si fosse deciso a vestirsi non me lo avrebbero potuto affidare. Fu così che mi venne l’idea di andare presso il vicino reparto dove le donne ricoverate erano assistite anche da alcune suore che io conoscevo bene: chiesi loro di darmi un lenzuolo. Di corsa tornai al reparto “Mandalari” dove era ricoverato anche il paesano di Palizzi che non ne voleva sapere di vestirsi. Si chiamava Vincenzo. Nella sala dei medici Vincenzo era ancora nudo. Mi feci coraggio e gli chiesi ancora una volta se volesse venire con me a Palizzi. Appena mi disse di sì lo ho avvolto in quel lenzuolo bianco: non nascondo che avevo un poco di preoccupazione per una sua possibile reazione. Che ci fu: ma per mia fortuna Vincenzo si mise a ridere e accettò di essere coperto dal lenzuolo. Prima di uscire i medici con tono scherzoso mi dissero: “don Mimmo, Vincenzo è pazzo ma voi non siete di meno”. Così partimmo per Palizzi. Vincenzo e gli altri cinque ammalati furono accolti con grande amore dalla comunità di Palizzi che si era organizzata per far vivere nel modo migliore quei giorni di vacanza ai malati mentali. Il 24 dicembre per la messa del Santo Natale, la chiesa del Santissimo Redentore di Palizzi Marina era stracolma di fedeli. E tra di loro c’erano anche i sei nostri amici del manicomio. Una celebrazione eucaristia emozionante, il mistero dell’amore di Dio, che si faceva ancora creatura che nasceva dal grembo di Maria, era vivo  e attuale in quella notte grazie alla presenza di quei sei poveri Cristi, fino a quel giorno dimenticati dentro le fetide mura del manicomio. Finita la santa messa, mentre ero in sacrestia, un giovane volontario mi chiese con insistenza di tornare in chiesa perché c’era un miracolo. Mi precipitai in chiesa e vidi Vincenzo, che aveva da poco compiuto settant’anni, che teneva per mano un’altra anziana signora e continuava a chiamarla per nome: “Cesira, ma sei tu Cesira”. Intorno ai due almeno altri trenta anziani del paese che conoscevano sia Cesira sia Vincenzo. E tutti si rivolgevano la domanda: “ma è Vincenzo?”. C’era in tutti loro meraviglia e stupore. Vincenzo infatti lo avevano dato per morto. A quel punto ho cercato di capire e chiesi alla signora Ciccilla, la più anziana e devota del gruppo, di raccontarmi cosa sapesse su Vincenzo e Cesira. La vecchia signora mi raccontò con le lacrime agli occhi che Vincenzo era il giovane più bello di Palizzi. Figlio di povera gente si era diplomato ragioniere. Nacque un amore grande Vincenzo e Cesira. Ma c’era un problema. Cesira era di nobili origini e suo padre, il barone del paese, quando scoprì la relazione di sua figlia con Vincenzo fece di tutto per farli dividere. Ma i suoi duri e rozzi tentativi non facevano che rafforzare l’amore tra i due giovani. Fu così che il barone corruppe il podestà del paese e lo convinse a fare un certificato falso che dichiarava il ragioniere Vincenzo pericoloso per se e per gli altri e ne disponeva immediata chiusura in manicomio. L’ordine venne eseguito dai Carabinieri che prelevarono dalla sua casa Vincenzo e lo portarono legato mani e piedi, su un carro trainato da una pariglia di buoi,  in manicomio. Era il lontano 1934. Vincenzo tornò a Palizzi dopo 49 anni.  Mentre raccontavo la storia incrociavo gli occhi dei miei alunni che diventavano sempre più attenti e lucidi. Anch’io mi commossi. Dopo un silenzio di pochi minuti una ragazza mi chiese: “prof. Nasone, ma la storia come è finita?”. E io ripresi il racconto e spiegai come dopo quel periodo di vacanza tutta la comunità di Palizzi, grazie alla legge 180 che favoriva le strutture alternative al manicomio, decise di accogliere definitivamente i propri ammalati mentali. Nel giro di pochi giorni nella canonica della parrocchia di Palizzi Marina nacque “Casa Emmaus”. Il ragioniere Vincenzo morì dopo quasi dieci anni: aveva riacquistato la sua libertà. E la domenica a Messa ogni tanto vedevo due anziani che si sedevano vicini e si sorridevano: erano Vincenzo e Cesira. E Cesira? Aveva rifiutato altri matrimoni proposti dal padre e morì qualche anno dopo Vincenzo.

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