Il Cis di Reggio Calabria ha promosso un dibattito culturale sul battello Pentcho con le voci di padre Pasquale Triulcio ed Enrico Tromba. Si tratta della storia di un vecchio rimorchiatore fluviale in fuga dalla furia nazista. Con un "approdo" in Calabria.
Tromba e padre Triulcio raccontano il battello Pentcho, l'altra Arca di Noè
Martedì scorso, presso la Biblioteca Villetta “Pietro De Nava” di Reggio Calabria, il Comune di Reggio Calabria, il Centro internazionale scrittori (Cis) della Calabria e la stessa Biblioteca hanno promosso l’incontro “L’epopea del battello Pentcho con i suoi profughi ebrei”.
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Dopo i saluti istituzionali, sono intervenuti il professore padre Pasquale Triulcio, docente di Storia della Chiesa presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Monsignor Vincenzo Zoccali” e l’Istituto teologico “Pio XI” di Reggio Calabria, Componente del Comitato scientifico Cis, l’archeologo Enrico Tromba, docente di Antichità ebraiche presso l’Istituto superiore di Scienze religiose di Reggio Calabria e Loreley Rosita Borruto, presidente del Cis della Calabria.
La storia del Battello Pentcho si colloca nei difficili anni della Seconda Guerra Mondiale. A bordo di un vecchio rimorchiatore fluviale inadatto alla navigazione in mare, circa 500 giovani ebrei, apolidi (cechi, polacchi, slovacchi, tedeschi, rumeni) salparono da Bratislava nel maggio del 1940 per fuggire all’occupazione nazista
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Il Pentcho, quasi come una “nuova” arca di Noè, ha custodito e protetto i giovani in fuga dal “diluvio” nazista, permettendo loro di non affondare in quella terribile notte buia che ha avvolto l’Europa nel secolo scorso.
La peculiarità calabrese
Tuttavia, per i fuggiaschi del Pentcho non filò tutto liscio, attraversarono comunque grandi e gravi difficoltà, ma certamente la loro sorte fu meno gravosa di chi subì l’occupazione nazista. C’è anche una “componente” calabrese nella storia dei giovani fuggiaschi. La maggior parte dei profughi infatti, dopo innumerevoli disavventure, venne trasferita in Calabria, a Ferramonti di Tarsia dove sorgeva il più grande campo di internamento dell’Italia fascista, e dove la grande maggioranza degli internati era ebrea non italiana.
Ferramonti per i naufraghi del Pentcho divenne una “salvezza”, giacché le condizioni del campo di internamento, seppur costrittive, erano meno dure di quelli dell’Europa del Nord.