Giovanni Paolo II a Reggio Calabria 40 anni dopo: storia, volti e parole di quella storica visita
È ancora vivo in città il ricordo dell’incontro con Giovanni Paolo II avvenuto il 7 ottobre del 1984. Don Pippo Curatola lo rinnova.
Cammino sinodale a Reggio Calabria, ieri la seconda lectio di padre Sergio Sala. Il tema scelto - tratto dagli Atti degli Apostoli - sono state le prime comunità cristiane: come vivevano e cosa le rende, oggi, da esempio. L'appuntamento si è svolto presso la Basilica Cattedrale di Reggio Calabria alla presenza dell'arcivescovo metropolita, monsignor Fortunato Morrone.
L'autore degli "Atti degli apostoli", che identifichiamo in Luca autore del terzo vangelo, affascina per la semplicità del suo raccontare, per l'arte di dire con poche parole molte cose. Con l'abilità di un pittore dà vita ad una serie di scene molto colorate. Ricordiamo tra l'altro che con la prima domenica di Avvento è iniziato il nuovo anno liturgico, l'anno C, durante il quale a Messa si legge soprattutto il Vangelo secondo Luca.
Il testo in esame si trova alla fine del cap. 2 (At 2,42-47), ma esistono due testi simili anche al cap. 4 (At 4,32-35) e al cap. 5 (At 5,11-16). Vengono chiamati sommari: servono per riassumere quanto raccontato e per fare il punto della situazione prima di passare ad altri avvenimenti. Oltre a questi tre sommari più corposi esistono altri riassunti redazionali più corti, composti da un solo versetto (At 9,31; At 16,5). Quanto abbiamo letto non è quindi un testo unico ma si tratta di una specie di ritornello. Questi sommari sono propri dello stesso Luca, il quale comunica ai suoi lettori in modo vivace che il dono dello Spirito realizza le più alte aspirazioni dell'uomo: unità, pace, gioia. Lo Spirito rende lo stare assieme, il condividere, valori superiori ad altre aspirazioni dell'uomo (prestigio, denaro, posizione sociale ...).
Anche altri scritti cristiani del primo secolo parlano di condivisione e comunione: la "Didaké" (4,5-8); la "Lettera di Barnaba" (19,8), testi cristiani antichissimi che non sono entrati nel canone della Bibbia; tra i testi canonici ci sono le lettere di San Paolo che trattano più volte il tema dell'accoglienza o della colletta nei confronti delle comunità più bisognose (Gal 2,10; 1Cor 16,1-4 e altri).
L'agape e la condivisione sono frutti dello Spirito, che germogliavano sul terreno fertile della comunità in preghiera. Era questo stile di vita la prima promozione missionaria che la comunità presentava al mondo, e da fuori si notava. Lo stesso dovrebbe valere oggi: prima di quel che diciamo o facciamo, è la capacità di stare assieme, la sinodalità, il segno della presenza dello Spirito nelle nostre comunità.
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Dobbiamo pensare quindi che le prime comunità cristiane andassero così bene come abbiamo appena letto? Se confrontiamo questi testi con alcune altre pagine degli Atti o dell'epistolario paolino, che evidenzia più criticità che virtù all'interno delle comunità, non sembrerebbe così.
Nel Nuovo Testamento il problema della mancanza di comunione (koinonia) è frequentissimo. Alcuni esempi:
- l'episodio di Anania e Saffira (At 5,1-11), che ingannano la comunità proprio sulla comunione dei beni. Da notare che questo episodio si trova a sandwich tra il secondo ed il terzo sommario che parlano di comunione e crescita nelle prime comunità cristiane;
- l'ingiusta distribuzione alle vedove degli ellenisti (At 6,1-6), segno che nella comunità di Gerusalemme il gruppo di lingua aramaica non andava particolarmente d'accordo con il gruppo di lingua greca. Luca, attento a sottolineare i tratti che univano i due gruppi rispetto a quelli che li dividevano, accenna appena a quali fossero le difficoltà di intesa tra di loro, sia alla base che tra i capi. Dietro queste poche parole, però, chissà quanti malumori e litigi! Il problema venne sì affrontato, ma sembra in modo non particolarmente sinodale, tanto che tra i capi si crearono due gruppi distinti: i dodici di lingua aramaica ed i sette di lingua greca;
- San Paolo si lamenta delle divisioni nelle comunità un po' in tutto l'epistolario. In Gal 5 arriva addirittura a dire "Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!" (Gal 5,15).
Esiste quindi un dibattito fra gli studiosi su come intendere questi sommari così idilliaci.
Secondo Rinaldo Fabris, grazie a riprese e ritornelli tematici, i lettori hanno davanti agli occhi un progetto di comunità ideale a cui ispirarsi. Ma il ripetere che le cose vanno bene andrebbe letto forse come: le cose dovrebbero essere così, ma non lo sono. Luca è autore delicato, non vuole sottolineare ciò che non funziona, quindi ripete in continuazione che le cose andavano bene, il che lascia intendere anche le difficoltà di convivenza e di armonia già all'interno della comunità madre.
Per la maggior parte dei commentatori il fatto storico della koinonia è comunque innegabile, e gli inevitabili problemi venivano realmente risolti con la guida degli Apostoli. Ammesso che una parte di questa descrizione sia frutto di una generalizzazione ideale di singoli episodi, non si potrebbe spiegare il dinamismo cristiano senza l'entusiasmo carismatico che si traduce in uno stile di vita e in un clima di intensa spiritualità.
In ogni caso il dibattito sulla funzione e l'attendibilità di questi sommari richiama il tema della "verità" o della "inerranza" della Bibbia. Si tratta di un tema molto interessante, ed è giusto affrontarlo anche nel Sinodo sulla sinodalità, perché intendersi su come leggere la Sacra Scrittura aiuta a percorrere la stessa strada (syn odos = cammino con). Papa Benedetto XVI, nella "Verbum Domini", Esortazione apostolica a seguito di un altro Sinodo, quello sulla Parola di Dio (2008), ha invitato ad intraprendere nuovi studi sui concetti di verità ed ispirazione nella Sacra Scrittura. La Bibbia dice il vero, ma di quale verità si tratta? Verità storica? Verità teologica? Altro tipo di verità?
Per Enzo Gatti, i sommari di Luca sono scene doppiamente vere: la verità della storia della salvezza, coi suoi protagonisti prodigiosi e la verità simbolico-sacramentale che ne consegue. In altre parole, i primi cristiani andavano d'accordo nei casi in cui trovavano l'unità in Cristo. E possiamo pensare che la koinonia fosse più semplice proprio all'inizio, quando i cristiani non erano ancora stati chiamati cristiani. Essi vengono chiamati cristiani per la prima volta ad Antiochia (At 11,26), mentre prima venivano chiamati "quelli della via" (At 9,2). Una comunità povera e in preghiera realizzava un tipo di convivenza nuova e paradossale per il mondo. Possiamo quindi presupporre che si andava d'accordo quando si era per la via, sulle strade, quando ancora non c'erano edifici di proprietà, beni da gestire. Per questo è importante tornare sulla via, percorrere la via assieme (syn odos).
La comunione all'interno della Chiesa è prodotta dallo Spirito, questo è vero, ed è pure vero l'opposto: dove non c'è comunione non c'è Chiesa, né missione e lo Spirito non soffia. Secondo Silvano Fausti, l’unità dei cristiani è un ossimoro perché se non si è uniti non si è cristiani. Dividersi in nome di Cristo è un'assurdità, eppure sappiamo quante volte ci si è divisi nel nome di Dio. Nella nostra preghiera dovremmo ripetere sempre il Salmo 133 (132): "Ecco quanto è buono e soave che i fratelli vivano insieme".
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Conclusa l'introduzione, passiamo ad analizzare il testo (At 2, 42-47) con maggior attenzione.
Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.
Quattro elementi spiegano in cosa consisteva la perseveranza del v. 42: insegnamento (didaké) degli apostoli, comunione (koinonia), spezzare (klasei) il pane, preghiere (proseuke).
L'insegnamento (didaké) comprendeva sia il primo annuncio verso i nuovi discepoli, sia l'approfondimento per chi già faceva parte della comunità. Nel primo secolo non esistevano ancora trattati e catechismi; gli apostoli raccontavano quel che Gesù aveva fatto, e questi racconti orali diventavano la base a partire dalla quale furono scritti i vangeli. Per Silvano Fausti gli apostoli insegnavano che Gesù è il Figlio di Dio, il quale si è fatto ultimo di tutti, e che ci ha insegnato che Dio è solo Amore. E dato che in ogni relazione d'amore c’è uno scambio di bene, così dovrebbe esserlo nel nostro rapporto d'amore con il Signore: come Cristo si è fatto come noi, così noi siamo chiamati ad essere e a fare come lui.
Tra i testi già esistenti, si insegnavano i libri che noi definiamo Antico Testamento, ma che al tempo erano l'unica parte della Sacra Scrittura esistente. Si continuava ad insegnare i testi antichi, ma in forma nuova. Non si sottolineava più così tanto la Legge (Torah), che rimaneva pur sempre importante (soprattutto per i cristiani provenienti dal giudaismo); quel che serviva, ed era urgente, era rileggere la Scrittura con occhi nuovi, con occhi cristologici, per scoprire come l'Antico Testamento aiutasse a spiegare il fenomeno Gesù, come mai fosse un Messia così diverso da come lo si aspettava, e come mai andò incontro ad una morte non da Messia ma da malfattore. Brani come i discepoli di Emmaus (Lc 24,32) e l'incontro di Filippo con l'eunuco etiope (At 8,30-35) insistono sul fatto che per capire la vita e la morte di Gesù fosse necessario spiegare, cominciando da Mosé e da tutti i profeti, ciò che si riferiva a Lui. Testi biblici poco sottolineati dai giudei, ad esempio i Canti del servo (Deuteroisaia) che leggiamo in Settimana Santa, acquisirono un'importanza molto superiore rispetto al passato.
Anche oggi siamo chiamati a rileggere l'Antico ed il Nuovo Testamento con gli occhi della sinodalità, chiedendo allo Spirito di illuminarci su quali siano le scelte necessarie alla Chiesa in questo periodo di grandi cambiamenti.
Il secondo elemento di perseveranza del v. 42 è la comunione (koinonia). E' facile enunciare principi di comunione, ma realizzarla è altro paio di maniche, soprattutto a livello di Chiesa locale, tra fratelli e con i presbiteri; andare d'accordo con personalità forti e turbolente, cercare l'armonia tra carisma ed istituzione, tra profezia e responsabilità di direzione ..., tutto questo è problematico e laborioso. Esercitare la koinonia nella quotidianità significa tentare di sanare alla radice gli squilibri, eliminare le forme di discriminazione ed emarginazione, valorizzare le singole persone ...; un vasto programma, ma è anche il vero banco di prova dell'autenticità ecclesiale. Come dice uno dei documenti di preparazione al Sinodo ("La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa") riprendendo la "Lumen Gentium", la comunione tra le persone umane è manifestazione dell'amore trinitario. Nel dono e nell’impegno della comunione si trovano la sorgente, la forma e lo scopo della sinodalità, in quanto essa esprime la partecipazione di tutti i suoi membri al discernimento e alla messa in opera delle vie della sua missione.
La koinonia è il miracolo che lo Spirito riesce a compiere operando su persone povere e disponibili. Da come ci comportiamo, il mondo riconosce se siamo o meno discepoli di Cristo: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,34-35).
Lo spezzare il pane del v. 42 è un termine che può indicare sia il normale pasto sia il rito.
Si trattava di una cena normale o della cena eucaristica? Forse di entrambe, nel senso che all'inizio si ripeteva quanto aveva fatto Gesù, il quale aveva istituito l'Eucaristia durante la cena. Il primo giorno della settimana la comunità si riuniva, mangiava insieme e faceva memoria di ciò che il Signore aveva lasciato come richiesta, l'ordine di iterazione "Fate questo in memoria di me".
Luca pone in risalto il collegamento tra i pasti e la presenza di Gesù, sia nel Vangelo (Lc 24,41-42) sia in Atti (At 1,4; At 10,41), e come gli apostoli avessero appreso a fare lo stesso (At 2,46; At 20,7.11). Ad es. è nello spezzare il pane che i discepoli di Emmaus riconoscono che il viandante che faceva ardere loro il cuore in petto mentre spiegava le Scritture era Gesù (Lc 24,35).
Per Rinaldo Fabris, tutti e quattro i concetti del v. 42 fanno pensare alle parti essenziali che componevano le prime adunanze liturgiche:
- insegnamento degli apostoli -----> liturgia della parola
- comunione fraterna -----> raccolta offerte per i poveri
- frazione del pane -----> eucaristia
- orazioni -----> preghiera eucaristica
Il timore (fobos) del v. 43 è un altro ritornello nell'opera lucana (At 5,11-12a; Lc 1,12 e altri) ed indica la sorpresa dell'uomo di fronte alla trascendenza quando avvengono rivelazioni, miracoli, interventi divini. Per il filosofo delle religioni Rudolf Otto, il timore, mysterium tremendum et fascinans, è da sempre alla base del sacro, ma in Lc e At diventa un principio sapienziale. Anche la Vergine Maria rimane turbata all'annuncio dell'angelo, il quale la rassicura: "Non temere" (Lc 1,29-30). Il "Timor di Dio" è uno dei sette doni dello Spirito Santo, è un principio sapienziale.
Anche i "prodigi e segni" indicavano che gli apostoli ripetevano ciò che faceva Gesù. Nel primo sommario non si specifica quali fossero questi segni, ma secondo Silvano Fausti l'indicazione c'è, ed è semplicemente il fatto che la gente sapeva vivere in comunione. Stare assieme come fratelli: era questo il segno più bello, ed in alcuni casi era pure un prodigio.
Secondo vari studiosi, il v. 44 ricorda un proverbio greco dell'epoca sul tema dell'amicizia, che diceva: "Gli amici tengono tutte le cose in comune". La koinonia era una caratteristica delle visioni utopistiche della società, il grande sogno dei filosofi fondato sull'amicizia (filìa), sogno degli epicurei e degli stoici, di Platone e dei pitagorici. Era però un ideale ad appannaggio solo degli eletti, di coloro che potevano filosofare, mentre non era considerato possibile per la gente comune. Nel cristianesimo invece l'invito è rivolto a tutti: il povero constata che finalmente il Regno è suo, l’affamato è saziato, il piangente è nella gioia. È anche il sogno del profeta Isaia: il lupo e l’agnello dimoreranno insieme, l’orsa e la mucca pascoleranno insieme, e il bambino si trastullerà sulla tana dell'aspide (Is 11,6 ss). Per i greci si trattava di utopie storicizzate, per i cristiani di beatitudini realizzate.
Per tornare alla domanda se sono fatti veri, possiamo dire che se ciò che è ideale non diventa anche possibile e reale, allora la vita sulla Terra rischia di andare alla deriva, perché la visione dei sommari negli Atti degli apostoli è forse l’unica sostenibile oggi. Sarà anche "idealistica", ma le vie "realistiche" dove ci hanno portato? Ci hanno portato alla crisi attuale, dalla quale ci si può riprendere cominciando a trattare la casa comune e le persone come ci ha sempre indicato il Signore.
Il v. 45 indica che lo scopo dei beni è la condivisione, non l'accaparramento. È sulla gestione dei beni del mondo che si giocano i beni soprannaturali: "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli l'avete fatto a me" (Mt 25,31 ss). I discepoli davano pieno adempimento all'amore fraterno, perché Gesù l'aveva lasciato in eredità ai suoi discepoli come il più sacro dei loro doveri (Lc 6,30-36).
I verbi all'imperfetto del v. 45 indicano un comportamento consuetudinario, un'abitudine. "Secondo il bisogno di ciascuno" indica che la carità non si può omologare, non tutti hanno bisogno di quel che abbiamo in mente noi. Quando si istituzionalizza troppo un servizio c'è il rischio perdere di vista le necessità dei singoli. Attenzione a non omologare il Sinodo!
Personalizzare è certamente più complicato, eppure Dio dà a tutti e sa personalizzare, ci conosce uno a uno. Se noi non ce la facciamo a personalizzare il servizio al singolo, tentiamo per lo meno di applicarlo a categorie di persone: il rispetto delle minoranze è importante; il lavoro deve esserci anche per i disabili; hanno diritto ad avere voce nel Sinodo anche i carcerati; ecc.
Il v. 46 aggiunge un dettaglio importante a quanto già scritto nel v. 42, cioè "nelle case". La famiglia era il nuovo luogo delle attività di culto: l'Eucaristia avveniva nelle case, a differenza del culto tradizionale che avveniva nel tempio e nelle sinagoghe.
I giudeo cristiani avevano come luogo di culto il tempio e la casa: il tempio in quanto giudei, la casa in quanto cristiani. Luca, pur rivolgendosi ad ellenisti, cristiani non giudei, è attento al tempio: il vangelo Lc inizia e finisce al tempio, ed anche in Atti il tempio rimane un punto di riferimento. Luca mostra la continuità tra la nuova comunità messianica e l'antica storia di salvezza concentrata nel simbolo del tempio. San Paolo, nonostante abbia aperto totalmente il cristianesimo ai lontani, continuò a sentirsi legato all'ordinamento giudaico e visitò il tempio fino al suo ultimo soggiorno a Gerusalemme (At 21, 22ss).
Eppure qualcosa stava cambiando, e gli Atti degli apostoli attestano il processo di progressiva rottura tra Chiesa nascente e vecchioordinamento. Ma anche quando il cristianesimo si staccò inesorabilmente da tempio e sinagoga, conservò elementi del giudaismo, basti ricordare quanto la nostra messa sia debitrice al culto giudaico.
Il termine "letizia" (agalliasis) è qualcosa di più di una semplice allegria: è una gioia dell'animo che prescinde dalle situazioni, se le cose vadano bene o vadano male, come testimonia San Paolo che si rallegrava anche nelle tribolazioni (Rm 5,2 ss; 2 Cor 8,2). La gioia è il segno della presenza di Dio, viene da pensare nuovamente alle beatitudini (Lc 6,20-23). Quando un tal senso di sicurezza in Dio afferra la persona o la comunità, la vita cristiana s'impronta di vera gioia e di fiducia.
A tale stato di profonda gioia è collegata la semplicità (afelotes) di cuore: semplicità non è ingenuità, ma quell'atteggiamento dell'anima che si apre completamente a Dio. L'etimologia del termine "semplicità” in greco è “senza sassi” (a-felleus), cioè un terreno fertile, un cuore sensibile che lascia entrare il prossimo, dove non ci sono tante cose da nascondere, tanti inciampi da presentare per l’incontro con l'altro.
La lode di Dio in favore del popolo del v. 47 richiama le parole che Luca usa nella notte di Natale: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama" (Lc 2,14). Vuol dire che in questo stile di vita nasce l’uomo nuovo come è nato Dio sulla terra; in questo stile di vita Dio si fa veramente visibile.
Vivere in pace è il sogno di tutti, per questo i fratelli godevano il favore di tutto il popolo.
Infine la frase "Ogni giorno, il Signore aggiungeva insieme i salvati" indica che questa vita è già “salvata”, sembra non ci sia bisogno di attendere il giudizio universale. Chi entra in questo stile di vita non è solo, fa parte di un corpo che cresce armonicamente, fatto di persone che capiscono quanto sia bello vivere in comunione l’uno con l’altro. Questa è opera del Signore e non dobbiamo far propaganda o avere molti mezzi per convincere gli altri: è vivendo così che la gente capisce il messaggio evangelico.
* Padre Gesuita
È ancora vivo in città il ricordo dell’incontro con Giovanni Paolo II avvenuto il 7 ottobre del 1984. Don Pippo Curatola lo rinnova.
Canonico cantore del Capitolo Metropolitano, il suo nome è legato all’arcivescovo Ferro, di cui è stato collaboratore e oggi vicepostulatore per la causa di beatificazione.
Domani la celebrazione a Ravagnese. Per il seminarista reggino è una tappa importante del cammino verso il sacerdozio ministeriale.