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Adesso gli manca solo un lavoro. Dopo più di un anno in Italia, infatti, Gibtsawi è felicissimo della sua nuova famiglia «allargata»: la parrocchia di Pellaro, a sud di Reggio Calabria. Con un passato da programmatore e fotografo, oggi, è pronto a qualunque sfida lavorativa pur di riuscire ad ottenere la tanto agognata autonomia. «Avevo iniziato a lavorare in un grande magazzino, poi è arrivato il Coronavirus... », ci dice all’inizio della nostra chiacchierata. La location è d’eccezione: la “vecchia” chiesa del quartiere che, con l’avvento del nuovo parroco (ormai insediatosi da quasi due anni), don Domenico De Biasi, si è trasformata in un’oasi di solidarietà. Accanti ai volontari pellaresi c’è anche lui, Gibtsawi e la moglie Abeba. Danno una mano a chi li ha accolti con grande generosità.
«Siamo arrivati in Italia, in modo legale attraverso i corridoi umanitari della Caritas – afferma il giovane papà con un italiano quasi fluente – dopo essere stati in un campo profughi in Etiopia per quasi dieci anni». Scappano da una guerra, sconosciuta ai più: soltanto lo scorso 7 luglio si è giunti al «cessate il fuoco» dopo un conflitto che si è trascinato per oltre 20 anni facendo cadere sul campo ben 100mila vittime, di cui tantissimi civili innocenti.
Negli occhi di Gibtsawi e della moglie, Abeba, ora si intravedono gemme di felicità. Sono liberi e si stanno creando i loro legami col territorio. La donna è arrivata in Italia durante la sua seconda gravidanza ed è stata seguita passo passo dal Consultorio diocesano fino alla nascita, esattamente un anno fa, della secondogenita. Il figlio più grande va all’asilo: le suore oblate salesiane del Sacro Cuore, fondate da monsignor Cognata, lo hanno accolto e ne stanno seguendo la prima fase di scolarizzazione. Lui, Gibtsawi, scorazza per le vie di Pellaro in sella alla sua bicicletta: è un uomo mite e riesce a trovare dei lavori saltuari: in un lido, ma anche qualche giornata nei campi.
Insomma si da da fare. Come la parrocchia che non ha fatto mai mancare la propria vicinanza, come ci dice una volontaria, Viviana: «Dopo le difficoltà iniziali, dovute alla lingua, adesso riusciamo a vivere a pieno il nostro rapporto con questa famiglia che si sta integrando nel territorio».
Una realtà, quella pellarese, che si è prodigata nel sostenere questa esperienza. In primis i gruppi parrocchiali, ma anche chi non frequenta assiduamente ha chiesto come potrebbe essere utile. Insomma, se si vuole considerare un esperimento, possiamo dire che è riuscito. Non senza qualche problema: Abeba, infatti, non riesce ad avere la sua carta d’identità. Il motivo, secondo i volontari, è rintracciabile in errori materiali commessi dall’anagrafe che, ad ogni tentativo, protrae a dismisura i tempi. Sicuramente più gravoso è il problema rispetto all’autonomia della famiglia: l’assenza di un lavoro stabile per Gibtsawi sta mettendo in discussione il principio di sussidiarietà “a tempo” del progetto, la cui scadenza era prevista per il 31 gennaio 2020.
L’emergenza Coronavirus ha fatto slittare i tempi: è in discussione, infatti, una proroga che darà manforte alle realtà accoglienti almeno fino alla fine del 2020. Un sostegno fondamentale: «Spero di trovare preso un lavoro – conclude Gibtsawi – so che non è facile; però ci sto provando con tutto me stesso». E siamo certi che la Provvidenza non lascerà sprovvista questa famiglia, ormai a pieno titolo, pellarese.
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