Scirubetta 2024, Reggio Calabria si conferma capitale del gelato artigianale
Cala il sipario sulla kermesse dedicata al gelato artigianale che ha riunito a Reggio Calabria i migliori maestri gelatieri del mondo.
Domenico Ursino ha formato generazioni di ingegneri informatici andati via dalla Calabria. Il motivo? Un muro di gomma contro l'innovazione. Alla fine il docente universitario ha fatto anche lui le valigie: adesso guida un'eccellenza nelle Marche. Eppure si fa un gran parlare di imprese 4.0.
Giovani, eccellenze e valigie pronte. È così impossibile restare a Reggio e in Calabria? Ne abbiamo parlato con Domenico Ursino, professore ordinario di Data Science e Coordinatore del Gruppo di Ingegneria Informatica presso l’Università Politecnica delle Marche.
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Originario di Reggio Calabria, Ursino per 17 anni ha «esportato talenti» nel campo dell’Innovazione, poi la scelta di partire anche lui.
Negli anni abbiamo assistito a un esodo di neo-ingegneri informatici. Ci può raccontare cosa è accaduto?
In diciassette anni ho avuto la possibilità di seguire quasi 200 tesisti. La fase della tesi di laurea è molto importante: oltre a suggellare il percorso accademico questa apre il mondo del lavoro ai ragazzi. La stragrande maggioranza dei miei tesisti, e mi riferisco a circa 150 giovani professionisti reggini, non vive più in riva allo Stretto. Oggi lavorano tutti, in gran parte nel centro nord Italia, alcuni anche all’estero: molti di loro hanno raggiunto ruoli d’eccellenza in grandi aziende di consulenza.
L’innovazione facilita ovunque lo sviluppo economico. Ovunque, ma non in Calabria?
Il territorio imprenditoriale calabrese soffre l’assenza di industrie. Questo è un dato storico assodato; accanto a questo aspetto, però, c’è un immobilismo imbarazzante degli ultimi anni.
Ma è tutto un gran parlare di impresa 4.0 con tanto di bandi pubblici volti a sostenerla specie nel Mezzogiorno.
Con l’avvento della pandemia è caduta anche l’ultima “maschera” dietro cui si è trincerato chi poteva fare e non ha fatto nulla. Lo smart working non è più una chimera: si può lavorare a qualsiasi latitudine purché ci siano le condizioni per poterlo fare in modo competitivo.
Si spieghi meglio.
So per certo che alcune grandi aziende di consulenza sarebbe disponibilissime ad aprire alcune sedi al Sud. Ci sono già molti esempi su Bari e Cosenza; per farlo, però, devono trovare un substrato tanto politico quanto universitario che favorisca questo tipo di investimento. Purtroppo finora non è stato così.
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Sta parlando per assurdo oppure ha un’esperienza personale in tal senso?
Senza voler parlare di sé stessi, però, posso affermare senza timore di smentite che quando insegnavo a Reggio Calabria ho cercato di convincere una multinazionale ad aprire una sede in città, ci eravamo pure riusciti ad avviare una loro attività all’interno dell’Università Mediterranea, ma ha resistito solo un paio d’anni.
Perché sono andati via?
Sotto il profilo politico non sono stati sostenuti e neanche il mondo culturale si è speso in un’azione di collante. Sarebbe ingeneroso fare di tutta l’erba un fascio perciò credo sia opportuno sottolineare l’impegno di pochissimi docenti che si sono spesi a livello personale per tutelare questa bella esperienza sul territorio. Sforzi resi purtroppo vani.
Dalle sue parole sembra utopistico parlare di South working.
Diciamoci la verità: il South working funziona solo se ci sono infrastrutture adeguate a sostenerlo. Chi vive di consulenza deve potersi muovere velocemente per raggiungere la sede principale della propria azienda o quella dei clienti. Potenziare l’aeroporto, in primis, vuol dire accorciare le distanze e creare lavoro sul territorio, senza pensare alla solita retorica sul turismo. E poi serve potenziare i servizi al cittadino. Tantissimi miei allievi mi hanno confidato che non tornerebbero più a Reggio Calabria col rischio di perdere la “normalità” acquisita in qualsiasi città di media dimensione al Centro-Nord Italia.
A furia di vedere i ragazzi partire alla fine è partito pure lei.
Volendo sperimentare percorsi innovativi ho trovato sulla mia strada degli ostacoli enormi da parte di molti miei colleghi. E la controprova l’ho avuta trasferendomi: quello che sono riuscito a concretizzare dove attualmente lavoro in cinque anni non sono stato nelle condizioni di poterlo fare a Reggio Calabria nei diciassette anni precedenti. Aggiungo e concludo: se si osserva la fuga dei docenti degli ultimi anni, forse, sarebbe il caso di iniziare a interrogarsi in modo approfondito sul perché questo accade.
Al primo gennaio 2022 la popolazione calabrese era formata da 1.855.454 individui di cui 946.965 donne e 908.489 uomini. La popolazione residente è scesa in 30 anni da 2.070.203 del 1991 a 1.959.050 del 2011, fino a 1.855.454 del 2022. L’indice di natalità scende da 7.9 nuovi nati per mille abitanti del 2018 a 7,1 del 2022.
I morti nel 2021 sono stati 22.632, mentre le nascite sono state 13.219, con un saldo negativo fra nati e morti di circa 9.400 unità. Le cancellazioni dall’anagrafe dei comuni calabresi sono state nel 2020 5.306 verso l’estero e 33.806 verso l’Italia di cui però 14.744 sono costituiti dalla mobilità interprovinciale e 2.152 dalla mobilità interregionale.
Al netto di questa componente per i soli trasferimenti verso altri comuni non calabresi si son perse circa 22.000 persone. La Calabria perde quindi più di 31.000 residenti ogni anno e questo dato di perdita mostra una tendenza crescente. Senza i dati dell’immigrazione da pesi extra UE il bilancio sarebbe ancora più negativo. I dati sono forniti dal professor Domenico Marino dell'Università Mediterranea di Reggio Calabria.
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Guardando la popolazione per classi di età si nota una forte diminuzione nella fascia 0-14 che passa da 334.612 del 2002 a 241.012 del 2022, ad una diminuzione della popolazione in età lavorativa con un dato 2002 che era di 1.331.534 e un dato del 2022 pari a 1.184.090.
La sola componente in crescita è quella degli ultrasessantacinquenni che passa da 343.477 del 2002 a 430.352 del 2022. In Calabria si sono perse quindi circa 240.000 unità di popolazione anziana, malgrado il contributo positivo dell’immigrazione, ed è aumentata solo la popolazione anziana. Quello che i dati impietosamente descrivono è un “inverno demografico” per la Calabria che può costituire un freno anche per i processi di sviluppo.
In estrema sintesi, la Calabria ha uno dei tassi più alti di migrazioni verso altre regioni del paese e questa emigrazione presenta una concentrazione maggiore nella fascia di età che va dai 25 e i 34 anni, nel momento, cioè, in cui si tenta di entrare nel mercato del lavoro.
«È importante riflettere sulle caratteristiche dei nuovi emigranti dalla Calabria e sulle conseguenze di questa emigrazione. La mobilità territoriale è molto forte soprattutto con riferimento a due tipologie di individui: gli High Skilled Workers e i Low Paid Workers. Sono due gruppi completamente differenti per caratteristiche. Gli appartenenti al primo gruppo costituiscono la parte più dinamica del mercato del lavoro» afferma il professor Domenico Marino dell'Università Mediterranea di Reggio Calabria.
«Perdere con l’emigrazione individui appartenenti a questo gruppo significa perdere capitale umano e quindi competitività. È una migrazione caratteristica dei paesi in via di sviluppo che sono tipicamente esportatori di cervelli. Le politiche del lavoro in Calabria - aggiunge Marino - non sono mai state attente a fermare questo flusso di lavoratori qualificati. Ma, cosa che è più grave, questo problema non è stato nemmeno avvertito. Il secondo gruppo fortemente interessato dai flussi migratori è il segmento dei Low Paid Workers».
Aggiunge l'accademico: «Si tratta, in questo caso, di soggetti a bassissima qualificazione e bassissima specializzazione che partono spinti dal bisogno di trovare un lavoro per sopravvivere. Vanno ad arricchire quelle nuove forme di proletariato urbano che vive nei grandi centri in condizioni al limite della povertà, con un lavoro, nel migliore dei casi, precario, se non, spesso, nero. Anche in questo caso politiche opportune di formazione e di inserimento lavorativo avrebbero evitato o ridotto la creazione di questa nuova forma di marginalità».
«Fra coloro che si trovano in una posizione garantita è, invece, bassa la mobilità migratoria. Nel caso degli appartenenti al ceto medio, non High Skilled, con una famiglia che è in grado di finanziare un più lungo periodo di disoccupazione, il costo percepito per lo spostamento, non inteso solo in senso strettamente economico, scoraggia la scelta di emigrare e si è disposti ad accettare un periodo più lungo di disoccupazione pur di trovare lavoro nel territorio di origine» sottolinea il docente della Mediterranea.
«Questo stato di cose ci spinge a pensare che uno dei problemi fondamentali del mercato del lavoro calabrese è sicuramente la difficoltà nel creare nuovi posti di lavoro e, soprattutto, nuovi posti di lavoro qualificati, in grado di attrarre gli High Skilled Workers. Se non si innalza il livello della domanda, le sole politiche attive del lavoro sono sicuramente insufficienti a correggere gli squilibri sul mercato del lavoro. Per innalzare il livello della domanda sono necessarie delle sane e robuste politiche industriali, che nella Calabria sono sempre state problematiche. Anche se non è più un esodo biblico come avveniva qualche decennio fa, l’emigrazione, soprattutto quella intellettuale, costituisce un problema e ha bisogno di risposte rapide e appropriate in termini di politiche».
«Se non si inverte questo trend, il divario di sviluppo della Calabria con le altre regioni, è destinato ad aumentare. Il capitale umano è la vera ricchezza di ogni paese avanzato e se non fermiamo questa migrazione intellettuale la Calabria si ritroverà fra qualche anno più povera e meno competitiva», conclude Marino.
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