Avvenire di Calabria

Il messaggio del vescovo della diocesi di Cassano allo Jonio e vice presidente della Cei

Giornata delle Comunicazioni sociali, Savino: «Ascoltare, osare, esaudire»

Il presule esalta il dono dell'ascolto: «Saper ascoltare, significa anche saper accogliere»

di Francesco Savino

Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram
Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram

Torniamo ad occuparci della 56esima Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, tornando sui temi proposti attraverso la riflessione del vescovo di Cassano allo Jonio e vice presidente della Cei, monsignor Francesco Savino.

Giornata delle Comunicazioni sociali, il messaggio del vescovo Savino

Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri,
figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa.

In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita.

San Paolo, Lettera ai Filippesi, 2, 14-16

Carissimi,

timore e tremore accompagnano la mia penna mentre mi accingo a rivolgervi queste parole. «Timore e tremore»: i sentimenti del pudore di fronte al mistero, evocati a più riprese dall’apostolo Paolo nelle sue lettere[1], citati nel titolo di una sua celebre opera da un filosofo danese che, non a caso, si firma con lo pseudonimo di Johannes de Silentio[2].


Non perdere i nostri aggiornamenti, segui il nostro canale Telegram: VAI AL CANALE


Timore, tremore, silenzio: quali altre coordinate se non queste, per cercare le parole in un tempo nel quale l’abisso oscuro della guerra è tornato a spalancarsi nelle viscere della nostra storia presente, alla periferia della nostra Europa? Come invitare alla Parola buona, all’Annuncio di gioia, all’E-vangelo, quando la più terribile delle parole, la parola che toglie voce e annulla il senso – guerra, appunto – quotidianamente impregna l’inchiostro della nostra carta stampata, riecheggia nei notiziari, marchia come il più ferale degli hashtag le nostre comunicazioni social?

Ci sentiamo sconfitti e sprofondati nel non-senso, di fronte a tale illogica umiliazione della vita. Ci sembra di essere stati ricacciati indietro di un secolo, nelle grinfie degli orrori del Novecento, costretti a confessare – con quei versi di Montale che tutti abbiamo appreso tra i banchi di scuola

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato

l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco

lo dichiari e risplenda come un croco

perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,

agli altri ed a se stesso amico,

e l’ombra sua non cura che la canicola

stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti

sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo[3].

Riproponiamoci in forma di domanda l’inquietante constatazione con la quale il poeta chiude la sua lirica: solo questo oggi possiamo dire, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo? Di fronte alla domanda di senso che urla da ogni lembo della martoriata terra ucraina, accompagnando il rantolo di dolore di milioni di vite innocenti, solo questo possiamo rassegnare? Non chiederci la parola?

Riflettere sull’etica della parola e sul valore sociale della comunicazione, in questi giorni nei quali l’emergenza della vita richiama alla radicalità delle nostre scelte, non può che comportare questa terribile sfida: come impedire che il nostro silenzio si tramuti in diserzione morale, in quella che – nel Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni Sociali dello scorso anno[4] – ho definito «perdita della Parola, perdita dell’Incontro, perdita della Festa, afonia del Bene».

Come tornare, allora, a renderlo gravido questo silenzio? A farne gestazione della parola che cura?

Il Santo Padre, in occasione della Memoria di San Francesco di Sales di quest’anno, riprendendo una celebre locuzione agostiniana (corde audire) ci ha indicato una traccia importante: Ascoltare con l’orecchio del cuore[5]. La nostra afonia di fronte al male va tradotta in carità di ascolto. “Tradotta” – lo sottolineo, non riempita. Perché è facile, di fronte ai vuoti di senso e di linguaggio che sperimentiamo nella vita, cedere alla tentazione di esercitare una funzione di supplenza: riempire i silenzi con qualsiasi chiacchiera, purché non si sentano, purché non ci assordino. E difatti sovente questa afonia, il ritrovarsi senza-parole, specialmente per chi della parola ha fatto una professione, porta con sé un sentimento di vergogna: è il silenzio dell’imbarazzo di non-aver-nulla-da-dire. Di fronte a questo imbarazzo, è facile e spontaneo ricorrere alla parola che copre, alla parola che nasconde. Rattoppiamo i silenzi come meglio ci riesce, un po’ come fa chi nasconde la polvere sotto il tappeto.

Tradurre l’afonia in ascolto, al contrario, significa fare i conti con il silenzio e lasciarlo parlare. Come dice un bellissimo verso di una canzone del Gen Rosso, «Eppure, il tuo silenzio parla/mi racconta te/ed io non ho parole ma ti/cercherò»[6]. Ecco l’esperienza dell’ascolto che il silenzio può mettere in movimento: scoprire che il silenzio racconta; fare i conti con la propria povertà di parole; mettersi alla ricerca dell’altro. È a questa autenticità, a questa radicalità dell’ascoltare che fa riferimento, ancora, l’Evangelii Gaudium di Papa Francesco:

Abbiamo bisogno di esercitarci nell’arte di ascoltare, che è più che sentire. La prima cosa, nella comunicazione con l’altro, è la capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro spirituale. L’ascolto ci aiuta ad individuare il gesto e la parola opportuna che ci smuove dalla tranquilla condizione di spettatori[7].

Saper ascoltare, significa anche saper accogliere

C’è una doppia dinamica in questa forma dell’ascoltare: una passività e un’attività, un ricevere e un generare. Innanzitutto, l’ascolto è un capere, cioè un ricevere, un lasciarsi parlare dai detti e dai silenzi dell’altro. In questa operazione, ciò che mi viene richiesto è il gesto dell’accogliere, del fare spazio dentro di me, affinché la parola che arriva possa dimorarvi. È questa la «capacità del cuore» evocata dal Santo Padre, senza la quale non può esservi prossimità.

Siamo capaci di questo ascolto accogliente? Siamo capaci di ricevere parole e silenzi senza pregiudizi, senza attese calcolanti il nostro utile? I paradigmi contemporanei dell’informazione e della comunicazione, in particolar modo quando veicolate attraverso il digitale, sembrano marginalizzare sempre più questa capacità. Serrati in schemi e ritmi sempre più rapidi, sempre più allusivi, sempre più rapsodici, i momenti di ascolto appaiono come un lusso che non possiamo permetterci nella comunicazione, tanto pubblica e informativa, quanto privata e personale. L’ascoltare, così, si riduce ad un sentire estemporaneo e fuggitivo, e la parola ad un “sentito dire”, che echeggia senza cura, senza che qualcuno vi presti realmente attenzione.

E invece in questo capere, in quest’ultima passività che è insita nell’ascolto accogliente, si rivela il grande mistero teologico connesso alla comunicazione, che è la grazia: saper ascoltare significa saper ricevere, e saper ricevere significa riconoscere l’Altro – la Parola dell’Altro – come un dono. Fintanto che non riusciremo a cogliere nella parola un appello, fintanto – cioè – che non avvertiremo che chi parla mi parla, parla proprio a me, chiede di me, mi impegna in una relazione; fintanto che non riusciremo a fare questo, il nostro ascolto non potrà essere vero ascolto, perché non avremo colto la gratuità della parola. “Gratuità” – non a caso – ha la stessa radice di “grazia”: è la radice della charis, dell’amore. Si ascolta col cuore, dunque, solo quando si è capaci di riconoscere nelle parole un appello d’amore.

Le parole dette – anche le più turpi, le più violente, le più aggressive – sono sempre una richiesta d’amore per chi sa ascoltare. Ecco perché l’amore finisce non quando non ci sono più parole, quando c’è il silenzio, bensì quando viene a mancare, da una o più parti, la scelta di ascoltarle, quelle parole. Lo ha scritto magistralmente il giornalista e poeta russo della rivoluzione, Vladimir Vladimirovic Majakovskij, in alcuni struggenti versi di una poesia intitolata, appunto, Ascolta:

Gettami in viso la parola terribile.

Perché non vuoi udire?

Non senti che ogni tuo nervo contorto

urla come una tromba di vetro

l’amore è morto…

l’amore è morto…

ascolta

rispondimi senza mentire…

come due fosse

in viso ti si scavano gli occhi…

lo so che già consumato è l’amore.

Ormai

a più d’un segno vi riconosco la noia

L’urlo accorato del poeta è in verità una richiesta disperata di ascolto: Perché non vuoi udire?/ Non senti?/ Ascolta!    A tradire l’amore non è la mancanza di parole, ma la mancanza di ascolto. Ecco che allora, prima ancora di lasciarci intimorire dai silenzi, prima ancora di chiederci se abbiamo ben parlato, se abbiamo bene-detto, dovremmo chiederci: siamo stati capaci di ascoltare? Siamo stati capaci di ricevere? Siamo stati capaci di essere bene-detti dal dono della parola dell’altro/Altro? Se non abbiamo sperimentato questo sapore di gratuità, questa scintilla di grazia, come possiamo sperare di dire qualcosa di diverso da un balbettìo? Senza il mistero dell’ascolto, siamo imprigionati nella gabbia dell’interesse, cioè di un linguaggio senza promessa, che si limita a constatare e comparare quello che c’è (inter-esse, appunto), che proclama la ripetizione del presente, che ignora la gioia dell’Annuncio.

C’è però, come dicevo poc’anzi, un altro aspetto, un altro verso in cui va percorsa la via dell’ascolto: non solo la capacità di ricevere, ma anche un’attività generativa. Riprendendo l’espressione dell’Evangelii Gaudium, «l’ascolto ci aiuta ad individuare il gesto e la parola opportuna che ci smuove dalla tranquilla condizione di spettatori». Ascoltando, dunque, ci mettiamo già in movimento: verso dove?

Giornata della Comunicazioni sociali, Savino: l'ascolto è riconoscimento dell'altro

Se l’ascolto è, intrinsecamente, riconoscimento dell’altro, apertura alla verità che il suo incontro dischiude, disponibilità a vivere la prossimità come sorpresa, come scuotimento dal proprio interesse, allora la comunicazione che esso mette in moto non può che essere ricerca del bene, grammatica e pragmatica della carità. I bravi giornalisti lo sperimentano ogni giorno: quando si parte dall’ascolto autentico, non si può non amare la storia che si sta raccontando e i volti che la animano. Non c’è vero ascolto che non conduca a questo desiderio del bene dell’altro, un desiderio che genera impegno e prossimità per il bene.

Dovrebbe farci riflettere, a questo proposito, la singolare somiglianza, nella lingua latina, di tre verbi: audireaudereexaudire – ascoltareosarerealizzare. Solo una lettera distingue l’ascoltare dall’osare. Se accolgo come un dono, come una richiesta d’amore, le parole dell’altro, non posso non sentirmi chiamato a rischiare per lui e con lui; non posso non sentirmi chiamato ad esaudire, cioè a ricavare la realtà da quanto ho udito.

Verso dove, allora, ci proietta l’ascolta dell’altro? Ci porta verso l’alto – verso l’impegno per una vita bella, spesa nella responsabilità del mondo che ci è dato di attraversare. Qui, ancora una volta, un’altra splendida poesia di Majakovskij, intitolata significativamente Ascoltate!, dice la grazia di questa esperienza. Sentite:

Se accendono le stelle,

vuol dire forse che a qualcuno servono,

che qualcuno desidera che esse siano,

che qualcuno chiama perle questi piccoli sputi?

E, forzando

le bufere di polvere del meriggio,

si spinge fino a Dio,

teme d’essere in ritardo,

piange,

gli bacia la mano nodosa,

implora

– ha bisogno di una stella! –

giura

che non può sopportare questo martirio senza stelle!

E poi

cammina inquieto,

fa finta d’esser calmo.

Dice a qualcuno:

“Allora, adesso, stai meglio?

Non hai paura?

No?!”.

Ascoltate!

Se accendono

le stelle,

vuol dire forse che a qualcuno servono,

che è indispensabile

che ogni sera

sopra i tetti

risplenda almeno una stella?

Mi sembra un segno splendido, questa “conversione” del poeta dall’Ascolta all’Ascoltate!: se nel primo caso la mancanza di reciprocità delude la promessa di dialogo e l’incontro è mancato dall’io, in questi ultimi versi, scoprendo il plurale, scoprendo la socialità, la voce dell’uomo, dopo aver vissuto l’ascolto dell’alto (delle stelle), può ritrovare la forza della profezia.

Eccola, la forza dell’ascolto: quando vive il dono, non può che comunicarsi in testimonianza della grazia!


PER APPROFONDIRE: Comunicazioni sociali, don Zucchelli: «Il dibattito crea comunità»


Non lasciamoci intimorire, allora, dall’imbarazzo della mancanza di parole che sperimentiamo di fronte al male. Il silenzio, fintanto che sapremo ascoltarlo, potrà tradursi in profezia. Viviamo con impegno questo “apostolato dell’ascolto”[8], che come operatori della comunicazione, ci è stato dato in vocazione. E sapremo testimoniare, ancora una volta, che le stelle in cielo brillano per tutti noi.

Cassano allo Ionio, 29 maggio 2022

            Francesco Savino
       Vescovo di Cassano all’Jonio

[1] 1Cor 2, 3; 2Cor. 7,16; Fil. 2, 12.

[2] Søren Kierkegaard, Timore e tremore (1843), a cura di Cornelio Fabro, Rizzoli, Milano 1972.

[3] Eugenio Montale, Non chiederci la parola (1923), in Ossi di seppia, 1925.

[4] https://www.diocesicassanoalloionio.it/diocesi-cassano-jonio/lettera-di-sua-ecc-za-mons-francesco-savino-ai-giornalisti/

[5] MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA 56ma GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI, Ascoltare con l’orecchio del cuore, 24 Gennaio 2022: https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/communications/documents/20220124-messaggio-comunicazioni-sociali.html

[6] Gen Rosso, Oltre l’invisibile, in Uno (1998).

[7] Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 171.

[8] MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA 56ma GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI, Ascoltare con l’orecchio del cuore, 24 Gennaio 2022: https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/communications/documents/20220124-messaggio-comunicazioni-sociali.html

Articoli Correlati