Avvenire di Calabria

Precarietà, la riforma è questione di parole

Riscrivere il concetto di subordinazione per riordinare giurisprudenza e flessibilità

Giorgio Fontana *

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Anche se manca un progetto complessivo, sono in cantiere interventi innovativi sul diritto del lavoro di cui circolano alcune bozze informali, finalizzati soprattutto a regolamentare la cosiddetta gig economy, l’economia dei “lavoretti” È il caso dunque di vederli più da vicino. La controversia che ha opposto i lavoratori alla multinazionale americana Foodora ha mostrato cosa avviene in questo settore in continua espansione, fatto di lavori intermediati dalle tecnologie informatiche. Si tratta di problemi di cui si dibatte da tempo (si cominciò negli anni ottanta con i pony express). È da allora infatti che si discute se l’inquadramento giuridico di questi lavoratori con contratti di lavoro non subordinati sia corretto o meno. La legislazione, in nome del mito della flessibilità, ha dato purtroppo enorme spazio a schemi di questo tipo, definiti elegantemente “atipici” o “flessibili” ma utilizzati molto spesso per finalità elusive. Le stesse modifiche introdotte dal Jobs Act renziano consentono deroghe ingiustificate e troppo ampie. Non sorprende quindi che ai lavoratori di Foodora, come a suo tempo ai fattorini dei pony express, i nostri giudici abbiano negato l’inquadramento richiesto, non rinvenendo i presupposti del lavoro subordinato tipico. Ma non occorre essere dei giuslavoristi per vedere i tantissimi lavoratori per lo più giovani intrappolati per anni in questi contratti di lavoro, anche se la lo- ro prestazione lavorativa non è dissimile da quella offerta dai comuni lavoratori subordinati. Il tema è dunque se sia giusto mantenere in piedi questa situazione, per cui il lavoro, benché in realtà sia “sociologicamente” subordinato, non viene riconosciuto come “giuridicamente” subordinato, né dalla legge né dalla giurisprudenza. Con la conseguenza di creare una differenza di trattamento fra lavoratori basata su sottigliezze giuridiche e mantenendo i lavoratori in un limbo privo di tutele. La soluzione allo studio, dopo anni di colpevole inerzia sembra essere un articolato normativo in cui si ridisegna la subordinazione, ampliandone i confini così da assorbire i “lavoretti” e i rapporti lavorativi intermediati da piattaforme informatiche, come, appunto, quelli instaurati da Foodora e da altre imprese del settore. Si stabilisce poi un trattamento economico minimo mediante l’applicazione obbligatoria dei contratti collettivi, il divieto del cottimo e il controllo sindacale sull’introduzione di algoritmi per la gestione dell’attività lavorativa, ed altro ancora. Anche se ci sono problemi giuridici da risolvere, si tratta nel complesso di un tentativo coraggioso di arginare la “fuga” dal lavoro subordinato e di regolamentare il “nuovo” lavoro. Tuttavia, leggendo il lungo articolato normativo vien da chiedersi se sia necessario inseguire le specificità, ricorrendo a schemi complicati e difficili da gestire, o se non sia preferibile un’altra strada, più semplice e al contempo più radicale, intervenendo sulla “fattispecie”, come si dice nel linguaggio giuridico, ossia sulla definizione di subordinazione. La proposta, in sintesi, è di ricalibrare la subordinazione sulla “dipendenza economica” del lavoratore, intendendo come tale la situazione in cui versa chi, svolgendo personalmente un’attività lavorativa in regime di mono–committenza, dipenda da questo rapporto lavorativo per garantire a sé e alla propria famiglia il reddito per vivere. In cinque righe o forse meno si potrebbe riscrivere l’art. 2094 c.c. sostituendo l’attuale arcaica nozione di subordinazione. Ma soprattutto, il passaggio ad un nuovo regime di disciplina basato sulla tutela del lavoro “sans phrase”, senza aggettivi, come voleva un altro grande giurista, Massimo D’Antona, tragicamente scomparso, chiuderebbe forse per sempre la “fuga” dai diritti assestando un duro colpo alla precarietà del lavoro.

* professore di Diritto del Lavoro Università di Reggio Calabria

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