Avvenire di Calabria

Ancora oggi, sulla cima del monte degli ulivi, i pellegrini possono visitare la chiesetta della ascensione

Quel salto del Risorto verso il cielo, con i piedi ben piantati sulla terra

È significativo che un luogo così piccolo raccolga tante memorie, ma specialmente che orienti vite verso il cielo, che chiami alla “salita” dell’estasi, ma anche alla concretezza delle orme

di Valerio Chiovaro

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Ancora oggi, sulla cima del monte degli ulivi, i pellegrini possono visitare la chiesetta della ascensione. Lì, su una pietra, sarebbe impressa l’orma che Gesù ha lasciato nel suo “salto” verso il cielo. È l’impronta di un unico piede, quello destro. L’altra impronta, la sinistra, secondo la tradizione, è stata spostata dopo l’anno 1000 nella moschea El Aqsa, nella spianata del Tempio, dove, tra l’altro, si ricorda la ascensione di Maometto. Belle coincidenze, è sempre un salto vero il cielo, ma con i piedi ben piantati per terra.

La Chiesa della ascensione è un luogo denso di spiritualità, con particolare riferimento alla femminilità: in un luogo poco distante dalla edicola, i cristiani venerano la tomba di Santa Pelagia, una eremita del terzo secolo, gli ebrei ritengono che si tratti della tomba della profetessa Huldah (settimo secolo a C), mentre per i musulmani sarebbe la tomba della mistica Rabi’a al-Basri.


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È significativo che un luogo così piccolo raccolga tante memorie, ma specialmente che orienti vite verso il cielo, che chiami alla “salita” dell’estasi, ma anche alla concretezza delle orme. La stessa impressione sembra la abbia avuta Sant’Ignazio di Loyola che visitò questo luogo per capire che direzione avrebbe dovuto prendere il suo ordine: contemplazione o azione? È un posto piccolo, quello che custodisce quell’unica orma, e da qui sembra di incrociare gli sguardi degli Apostoli (At 1,9).

Sono trascorsi quaranta giorni dalla Pasqua, un tempo nel quale Gesù risorto riconsacra il digiuno nel deserto e sconfigge le grandi tentazioni, ma anche da nuovo corso all’esodo della vita verso l’attesa della resurrezione. In questi quaranta giorni Gesù ha “speso tempo” con i suoi apostoli, li ha incontrati ora nel cenacolo, ora sul lago; li ha preceduti, attesi, richiamati. È entrato a porte chiuse nel luogo dove si trovavano, per aprire il loro cuori. Ha «mostrato le sue ferite» per rimarginare le loro; perché -come recita un proverbio ebraico- «un cuore integro è un cuore infranto». Sono sguardi - quelli degli Apostoli nel racconto degli Atti - che cercano ancora ciò che è sottratto ai loro occhi.

Sono orecchie che odono il monito degli angeli: «perché state a guardare il cielo». E da qui ricomincia l’annuncio, da qui si ritorna a Gerusalemme, pieni di gioia. Il resto siamo noi, anche da qui rinasce la comunità, la forza del kerigma. Anche noi possiamo ripartire da questa piccola Chiesa, da quella semplice orma. È il segno della instabilità della fede, perché la fede è fidarsi, stare con un piede ben piantato per terra, ma con l’altro verso il cielo. È il segno che la vita è in salita e che ogni mistica esige la concretezza di orme profonde. È il segno della solitudine - quell’unica orma - una solitudine che chiama alla comunione degli sguardi rivolti verso un unico cielo: un piede destro che ha bisogno di un piede sinistro per camminare.

Forse anche per questo Gesù li manda a due a due: perché ciascuno metta almeno un piede, l’altro piede è impegnato verso il cielo. Ma ancora è il segno di una esistenza vissuta come attesa di ricongiungimento. Altrove si ricongiungeranno i piedi del nostro ascendere, vivendo, così, l’umiltà dell’essere mancanti, un po’ azzoppati, un po’ lenti, chiamati ad una completezza che è nella destinazione del cielo. Quell’unica orma - stavolta quella che non si vede - è vivere già al cospetto di un cielo che, abitato dalla umanità di Cristo, è meno pieno di vuoto e più attraente di ascesa. Anche questo ci dà forza per una buona vita. Lasciamo un’orma lungo questo cammino sulla terra, ma ricordiamoci che anche l’orma del piede verso il cielo è un segno da indicare, un cammino da percorrere e da proporre a questa umanità, altrimenti troppo “terra terra”.


PER APPROFONDIRE: Oggi l’Ascensione di Gesù al Cielo, non un addio ma presenza viva ed eterna


Ce lo ricordano anche Santa Pelagia, l’eremita; Huldah, la profetessa e la mistica mussulmana Rabi’a al-Basri. Vite di donne, solitudini abitate, capaci di parole forti e di poesia eterna. Luca (24,52) ci dice che gli Apostoli, quando Gesù si staccò da loro, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme pieni di gioia, Rabi’a al-Basri, in una sua massima, ci dà il senso di questa adorazione: «O Dio! Se io Ti adoro per paura dell’inferno, bruciami all’inferno; e se Ti adoro con la speranza del paradiso, escludimi dal paradiso; ma se Ti adoro per Te stesso, non rifiutarmi la Tua Bellezza eterna!». Parole piene che già elevano i nostri cuori al cielo, pur fermandoci saldamente a terra. Buona ascensione allora e buon ritorno a Gerusalemme, tra cielo e terra, nella gioia di una Bellezza eterna.

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