Avvenire di Calabria

Museo Sorrentino, nuova luce per il bacolo di De Ricci

Il pastorale di Antonio De Ricci torna ai suoi colori, grazie a un meticoloso intervento conservativo aperto al pubblico

di Mariarita Sciarrone

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Smontato il mito del “colore blu”: l’opera quattrocentesca rivelava una tavolozza più ricca, nascosta da un restauro successivo ed “abbondante”

Un oggetto carico di storia e fede, simbolo dell’autorità episcopale e testimone del passato della città. Il bacolo dell’Arcivescovo di Reggio Calabria, realizzato tra il 1450 e il 1480 per Antonio de Ricci, è al centro di un importante intervento di restauro presso il Museo Diocesano. Sante Guido, restauratore e docente alla Pontificia Università Gregoriana, spiega in questa intervista le scoperte emerse, la delicatezza del lavoro svolto e il significato di restituire al pubblico un’opera nella sua verità storica.



Perché il bacolo dell’Arcivescovo di Reggio Calabria è così importante? È un oggetto preziosissimo, simbolicamente il più importante della città, perché è l’unico sopravvissuto al terremoto del 1908 che rase al suolo Reggio Calabria e Messina. È stato realizzato per l’Arcivescovo Antonio de Ricci da un argentiere napoletano, come dimostra un punzone, un piccolo timbro, con la scritta “Nap”. È in argento dorato e smalto, decorato con racemi di vite e piccoli grappoli, simboli eucaristici, mentre al centro c’è l’incoronazione della Vergine, in riferimento alla titolazione mariana della Cattedrale. È un oggetto carico di storia e significato, ancora oggi usato nel passaggio tra due arcivescovi, come è avvenuto di recente tra sua Eccellenza Morosini e Monsignor Morrone.

Cosa avete scoperto durante il restauro? Ci si è resi conto che a causa dell’inquinamento, per la normale trasformazione dei metalli, ma anche per la vetustà dell’opera, gli argenti si erano scuriti. Ma soprattutto abbiamo scoperto che il famoso “bacolo blu” non è blu. Quel colore era il risultato di un restauro precedente, ma non abbiamo documenti d’archivio a riguardo, perché tutto fu distrutto nel 1908. Ce ne siamo accorti già dai primi tamponcini di solvente, che diventavano blu: questo significa che il blu era una tempera stesa sopra lo smalto originale. Rimuovendola, stiamo recuperando i colori autentici: un fondo blu con racemi viola, verdi, dettagli rossi e arancio scuro. Il bacolo era molto più colorato rispetto all’immagine che conoscevamo.

Quali interventi state eseguendo per conservarlo? Stiamo rimuovendo il solfuro d’argento, cioè il nero che si forma sull’argento a causa dell’inquinamento e dell’ozolfo nell’aria. È un lavoro delicato perché il vetro dello smalto si sta staccando e continuerà a farlo se non curato. Per proteggerlo, verrà applicato un film trasparente, lo stesso usato sugli argenti del Museo del Tesoro di San Pietro e di Santa Maria Maggiore a Roma. Questo prodotto sigilla le superfici per circa dieci anni. La scelta metodologica è stata quella di trattare il bacolo come un’opera d’arte: recuperare tutto ciò che è originale, anche se il risultato finale sarà diverso da quello a cui eravamo abituati.

Perché il restauro è stato reso visibile al pubblico? Perché il restauro è anche un momento educativo. Il cantiere è rimasto aperto ai visitatori del Museo Diocesano, che potevano osservare l’opera durante gli interventi e ricevere spiegazioni su cosa stesse accadendo. È stata un’occasione per far comprendere il valore di quest’opera e l’importanza di trattarla come un dipinto, un affresco o una scultura: con la massima attenzione e rispetto per la sua autenticità.


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Cosa succederà al bacolo dopo il restauro? Fortunatamente, il bacolo viene conservato in una vetrina sigillata, quindi non è più a contatto diretto con l’atmosfera. Dopo la pulitura, verrà protetto con un film trasparente che lo preserverà per circa dieci anni. Probabilmente si dovrà intervenire di nuovo in futuro, ma intanto potremo vedere l’opera nel suo vero aspetto originario, con i colori autentici del Quattrocento e la brillantezza dell’argento dorato che ne valorizza tutta la bellezza.

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